Markus Reuter – String Quartet No.1 ‘Heartland’, Matangi Quartet [Solaire Records, 2019]

Markus Reuter – String Quartet No.1 ‘Heartland’, Matangi Quartet [Solaire Records, 2019]

Apr 16, 2019 0 By Marcello Nardi

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L’universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, orlati di basse ringhiere. Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente. (Jorge Luis Borges, La Biblioteca di Babele, Finzioni)

-Buongiorno, spero che ieri non sia stata troppo pesante la chiacchierata!

Mandare un messaggio di ringraziamento dopo un’intervista è un piacevole atto di cortesia. Ma se a mandarlo è l’intervistato, non l’intervistatore, allora è qualcosa che va abbastanza fuori dall’ordinario. L’intervistato, nella fattispecie, è Markus Reuter, che ho avuto il piacere di incontrare per una chiacchierata il giorno prima del messaggio. Mi aspettavo una conversazione articolata, intensa, rivelatoria. E le mie aspettative sono state più che soddisfatte. Quindi, gli ho risposto in maniera sincera che stavo ancora digerendo le parole e che avevo assolutamente apprezzato. Durante la trascrizione, ho realizzato come il dialogo fosse partito da un momento di riflessione a proposito del suo ultimo lavoro, il primo quartetto d’archi a suo nome, intitolato Heartland, e presto si era mossa verso altri lidi, come rami di una mappa mentale, verso una panoramica sulla sua visione musicale. Aprendo molteplici strade, indicando una miriade di direzioni, la conversazione aveva disvelato una struttura di pensiero a molteplici strati, con molte fertili e importanti ramificazioni che comparivano ad ogni frase. Mentre le parole parlavano della musica ad un livello superficiale, sviluppando un’analisi di come il lavoro fosse stato scritto ed interpretato, ogni concetto espresso apriva ad un’elaborata visione. C’è da aspettarselo da una chiacchierata con Markus Reuter. E probabilmente questa è una delle ragioni per la quale sto ancora digerendo l’incontro: un’architettura di concetti interconnessi sopra molteplici piani semantici, come la libreria infinita raccontata da Jorge Luis Borges ne La libreria di Babele. La metodologia con la quale Markus Reuter ha scritto Heartland sfrutta un meccanismo simile, come un eterno dischiudersi di forme sopra altre forme. All’inizio della nostra chiacchierata, Reuter ha raccontato: mi sono ricordato che, quando ho iniziato a scrivere durante l’estate dell’anno scorso, un amico mi ha chiesto quale tecnica utilizzassi. Ho provato a spiegarglielo in questa maniera: mi ricordo un gioco che si faceva da bambini. C’è questa tecnica di colorazione, si prende un foglio di carta bianco, si passa della cera colorata e poi uno strato di cera nera. E poi, con un coltello, si incide finché dal nero non ricompare sotto lo strato colorato. Stencil, questo è il nome della tecnica. E’ come una forma che si muove su un mondo. Come se avessi una partitura complessa sotto, ma sopra una forma che si muove e lascia vedere alcuni dettagli. Questa è proprio la maniera in cui Heartland è stato composto. E’ come una forma che si muove sopra una superficie colorata. 

Mi viene in mente che prima della nostra chiacchierata, Markus Reuter stava finendo una lezione con uno studente. Mi ero immaginato la nostra conversazione come un’esperienza formativa, simile a quella dello studente prima di me. Gli ho chiesto quale fosse stato il contenuto della lezione, che, ovviamente, includeva una panoramica del principale strumento per il quale Reuter è conosciuto, ovvero la Touch Guitar. Ma questo è stato solo il punto di partenza per poi approfondire non solo le tecniche dello stesso strumento, ma anche il processo compositivo. Sia che si parli della Touch Guitar, o della musica in generale, bisogna tenere a mente come iniziare una nota e come finire una nota -dice Markus Reuter spiegando il contenuto della lezione precedente. Dopo puoi sviluppare qualcos’altro, semplicemente da questa idea base. Tutto il mio processo compositivo nasce da questa semplice considerazione. Voglio suonare, voglio essere in grado di comporre una singola meravigliosa nota, e questa deve essere la cellula da cui far scaturire tutta la struttura.

La cosa più importante è sapere come iniziare e finire una nota

L’indicazione all’inizio della partitura di Zauberberg, la più lunga delle composizioni del quartetto d’archi eseguita dal Matangi Quartet con i suoi dieci minuti e oltre, indica ‘interlocking, active meditation’. E’ infatti un tour de force di esplorazioni subconsce nella forma di una fuga, costituita da pattern che si muovono ritmicamente al ritmo di crome rimbalzando da uno strumento all’altro, che Markus Reuter giustamente definisce come ‘un hochetus da incubo’. Un tour de force sia dal punto di vista dell’esecuzione che dal punto di vista dell’ascolto. Non c’è alcuna apparente coerenza tonale o tematica a fare da trait de union, mentre la melodia crea un frattale cangiante di suoni. Né la musica si avventura in territori atonali, né manca di coerenza dal punto di vista tematico, ma non può essere neppure definita ‘tonale’ oppure ‘tematica’. La ripetitività dei pattern solo apparentemente rimanda alla scuola minimalista: è, invece, la particolare attenzione alla dimensione dell’ascolto che fa eventualmente avvicinare questo lavoro alla lezione minimalista. 

Le battute iniziali, con un tema discendente che viaggia tra violini, viola ed infine violoncello, indica la strada che il resto del lavoro seguirà. L’attenzione si focalizza sulle sottili variazioni nascoste sotto la superficie, piuttosto che sullo sviluppo melodico in se. Intorno alla battuta 29 il motivo iniziale sembra riapparire. Un unisono inaspettato nell’altrimenti uniforme sviluppo della singola melodia richiede attenzione alla battuta 64. Una variazione di questo stesso motivo ritorna poche misure più tardi, alla battuta 76, finché, alla battuta 83, il tema iniziale ricompare, come un segno divisorio, con lo scopo di ridar forza al movimento perpetuo dell’opera. C’è un cambiamento di punto di vista, come un movimento di telecamera in un film, dalla battuta 100 alla 115: gli strumenti si muovono verso il registro medio e l’attenzione va verso i salti di intervalli in maniera più accentuata rispetto alle battute precedenti. Il violoncello improvvisamente smette di suonare nelle battute dalla 171 alla 176: una ruota che gira, costituita da violini e viola da soli, sono ora soli, come se gravitassero immaginari di fronte all’ascoltatore. Un trucco rivelato, ecco cosa sono. Le strutture che costantemente si allargano e richiudono sono ora visibili, ognuna seguendo una sua propria traccia. Tutto ciò che prima sottilmente catturava l’attenzione, ora diventa più chiaro. La cosa divertente è che ci sono cadenze che sono uscite fuori in maniera quasi involontaria -dice Reuter parlando del processo di composizione generativo utilizzato per il pezzo. Se si fa attenzione tutto il pazzo è praticamente fatto da variazioni. In tutte queste variazioni, la griglia che ho utilizzato rimane identica. Lavoro sulla spaziatura tra le note, in modo che sia elastica ed un tema possa essere moltiplicato. Gli stessi intervalli vengono moltiplicati per 1.2 o per altri rapporti. Mantiene la stessa forma, ma con una scalatura che fa ingrandire il pezzo. Tutto è sempre elastico. Il prolungato tema cromatico dalla battuta 191 alla 197 suonato da tutti gli strumenti funziona da ricarica a livello energetico e prepara per il ritorno della frase iniziale ancora per un paio di volte, prima della fine di Zauberberg.

Mentre al centro dell’attenzione ci sono le cesure a livello strutturale del pezzo e tutto si sviluppa in maniera orizzontale attraverso un senso costante del tempo, è tuttavia l’ascoltatore che ‘suona’ la musica. E’ esso/a stesso a indicare il ritmo. Quello che accade nel pezzo, che è scritto nella partitura, resulta essere uno strumento per creare illusione. Markus Reuter ha creato questa ‘illusione’ di proposito, ed indica come l’ha sviluppata: penso che la cosa magica sia guardare alle progressioni della melodia, dell’armonia e del ritmo dal punto di vista di frasi molto lunghe […] con Zauberberg ho fatto un esperimento: il pezzo procede attraverso questa lunga frase due volte. Si ripete praticamente a metà, ma è veramente difficile capirlo. Gli archi si mimetizzano quasi sempre nel registro medio. L’ascoltatore è obbligato ad uscire fuori dalla propria comfort zone in una ricerca meditativa, abbandonandosi ad ogni singolo movimento delle note. L’illusione, però, non è semplicemente un trucco: è come se al centro ci fosse lo stesso atto dell’ascolto. Alla base del suo approccio compositivo c’è una concezione della melodia che gioca un ruolo primario, anche superiore ai concetti di contrappunto o di armonia tradizionale, sui pur quali fa affidamento. Nel momento in cui noi pensiamo in termini di temi e progressioni di accordi che creano un centro tonale, in maniera verticale, Reuter, invece, li vede dal punto di vista ‘orizzontale’: il mio linguaggio armonico è il risultato della progressione melodica. Tutto è melodico. Lo vediamo con il quartetto: nella maggior parte dei casi abbiamo quattro parti, quattro melodie che si muovono e creano un contesto armonico. Non inizio mai dall’idea di trovare una specifica armonia e poi scriverne una parte, ma dalle parti individuali che sempre creano il contesto armonico.

A ciascuna parete di ciascun esagono corrispondono cinque scaffali; ciascuno scaffale contiene trentadue libri di formato uniforme; ciascun libro è di quattrocentodieci pagine; ciascuna pagina, di quaranta righe; ciascuna riga, di quaranta lettere di colore nero. […] Si decifrò anche il contenuto: nozioni di analisi combinatoria, illustrate con esempi di permutazioni a ripetizione illimitata. (Jorge Luis Borges, La Biblioteca di Babele, Finzioni)

Il compositore tedesco si è costruito un nome come virtuoso della Touch Guitar: ha contribuito a svilupparla sia dal punto di vista artigianale, che da quello musicale. Questa è un’ulteriore evoluzione dello Stick e della Warr Guitar, che Tony Levin e Trey Gunn dei King Crimson hanno contribuito a portare all’attenzione del pubblico negli anni ’80 e ’90. Si tratta di una chitarra ad otto corde, che non sono pizzicate o colpite, ma suonate attraverso la tecnica del tapping. Nel sontuoso booklet di 44 pagine che accompagna il CD e vinile, Tobias Fischer non solo racconta la storia dietro al quartetto, ma dà anche un quadro onnicomprensivo della carriera di Reuter. Ha iniziato studiando con Robert Fripp nel Guitar Craft all’inizio degli anni ’90. Da lì, si è fatto conoscere per un linguaggio a cavallo tra soundscape ambient e influenze progressive rock. Conosciuto soprattutto per la partecipazione al Crimson ProjeKCt con Adrian Belew, per la collaborazione decennale con gli Stick Men, insieme a Tony Levin e Pat Mastelotto, per il duo Totem, ancora con Mastelotto, per i lavori ambient con i musicisti elettronici Ian Boddy, Robert Rich e Bernhard Wöstheinrich, ha iniziato a coltivare un interesse per la composizione per ensemble classici molto prima di quando poi ha effettivamente incominciato. E’ solo nel 2013 che ha finalmente completato la scrittura ed orchestrazione di un pezzo molto esigente, con la sua ora ed oltre di durata, per un ensemble esteso. Todmorden-513 richiede ancora una volta l’uso della parola tour de force, visti i suoi cinquecentotredici cambi di accordi che si manifestano ad un tempo prefissato e costante. E’ stato il primo vero pezzo che ha indicato la via che voleva seguire, attraverso un’investigazione sul terreno dell’applicazione degli algoritmi alla scrittura musicale. Sun Trance, un pezzo scritto per un gruppo misto di strumenti elettrici ed acustici, ed un lavoro per piano sono stati i due passaggi intermedi per raggiungere un livello successivo. Heartland, in un certo senso, è il punto finale di questa ricerca. Reuter spiega il contesto nel quale pensa il termine ‘ricerca’ nella sua musica in relazione ad una speciale ‘carica’ che ha avvertito durante il processo compositivo: nella ricerca non c’è scopo, quando si fa ricerca non ci si aspetta obbligatoriamente risultati. Ma quando io prendo la decisione di comporre un pezzo, questo ha una dimensione diversa. Può essere la stessa tecnica in linea di principio, lo stesso processo a livello superficiale. Ma la differenza è che quando io ho cominciato a scrivere Heartland sapevo che sarebbe stato pubblicato ad Aprile di quest’anno. Questo fa la differenza, per me almeno. Lo dico perché questo in un certo senso carica il lavoro di un peso specifico per me, come ‘caricare le batterie’ in un certo senso. ‘Caricare’ il processo di scrittura di Heartland ha richiesto dotarsi di un tipo speciale di carica interiore. E’ una cosa diversa da un processo di scrittura normale.

Nell’Ottobre del 2017 mi avevano incuriosito una serie di articoli a proposito delle pratiche di composizione generativa, pubblicati da una fonte autorevole come NewMusic USA. Erano stati scritti da un autore che stavo seguendo, Joseph Branciforte, un compositore, sound engineer e -recentemente annunciato- proprietario di un’etichetta, oltre che polistrumentista, basato a New York. E, tra parentesi, è anche il mastermind dietro una band avant prog di nome Cellar and the Point. (Un’altra connessione inaspettata con il prog). Branciforte, che sta esplorando l’applicazione di algoritmi in supporto alla creazione di partiture in tempo reale nei concerti dal vivo, ha dato un’importante panoramica dello stato dell’arte della composizione generativa. Se la potenza di calcolo a disposizione dei compositori di oggi è infinitamente superiore a quella a disposizione in passato, parlare di composizione generativa non è necessariamente parlare di un fenomeno recente: mentre i compositori prima del 20esimo secolo non pensavano alla loro composizione in termini algoritmi, è tuttavia facile vedere aspetti delle loro pratiche da questo punto di vista. Dalle declinazioni del contrappunto all’isoritmia del 14esimo secolo, dalla fuga al serialismo, la musica occidentale ha fatto uso delle tecniche di composizione basate su regole argomenta Branciforte. E’ importante tenere separate la scrittura musicale attraverso strumenti computazionali dalla scrittura musicale tramite metodologie generative, che è spesso spiegata come qualcosa che è emersa solo al momento dell’invenzione del computer dopo il 1945. Insomma, mentre scrivere per mezzo di un computer si deve ricollegare allo sviluppo del supporto tecnologico, integrare le pratiche generative nella scrittura è iniziato molto prima. Iannis Xenakis è stato uno dei primi ad esplorare le potenzialità di calcolo, specie nel suo quartetto per archi ST4-1,080262 (1955- 1962). Il musicologo Paul Griffiths indica che il cambiamento tecnologico non solo ha impattato il processo di composizione, ma anche le pratiche di ascolto: se la musica tradizionale tonale aveva offerto linee ospitali per l’ascoltatore -linee intorno alle quali il processo musicale poteva essere seguito facilmente- Xenakis presentava stati e imprevedibili cambi di stato. Non era da solo: Stockhausen con il moment form stava esplicitamente avventurandosi nella stessa direzione. Infatti, il cammino verso questo nuovo tipo di tempo -un tempo senza giustificazioni e precisi scopi- è stata la più importante e forse fondamentale caratteristica della musica del dopo 1945 […] Alla stessa maniera degli obiettivi della composizione, gli obiettivi dell’ascolto stavano diventando, alla metà degli anni ’60, oggettivi e combinatori [Paul Griffiths, Modern Music and A er, Oxford Press]. Creare un ponte tra l’ascolto e la scrittura generativa, alla maniera di Paul Griffiths, significa ripensare in una dimensione nuova la relazione tra l’opera e l’ascoltatore. Comporre significa formare una dimensione dell’atto dell’ascolto e, anche se Reuter non avesse guardato a Xenakis e Stockhausen come modelli, comunque carica la sua musica di una dimensione precipua, come d’altronde i maestri facevano. Heartland crea un’ambiente unico nel quale l’atto dell’ascolto si avvicina agli stati di meditazione.

Voglio essere in grado di comporre una singola meravigliosa nota, e questa deve essere la cellula da cui far scaturire tutta la struttura

Impostare un algoritmo allo scopo di creare musica non c’entra con un compositore che abbandona la sua responsabilità di essere la mente creativa dietro l’opera. Ancora Branciforte fa un affermazione ben precisa a riguardo nella sua serie di articoli: si crede che delegare queste decisioni ad un computer è come abdicare la responsabilità fondamentale di essere un compositore, il processo personale dietro la soggettività. Ma io sto incominciando a vedere la programmazione di algoritmi come un processo meta-compositivo: un pò come svelare i principi che sottostanno alle mie preferenze soggettive ed incorporarli nell’architettura stessa degli algoritmi. Durante la mia conversazione con Markus Reuter, ha voluto spiegare come i suoi metodi di scrittura musicale avessero influenzato la sua propensione a comunicare, in quanto compositore: la questione della soggettività contro l’oggettività è veramente complessa. Sto scrivendo un pezzo, indico le note, i ritmi, ma ci sarà un processo di traduzione, che avverrà ad opera degli esecutori […] Non ho indicato loro di suonare note in maniera diversa da quello che era scritto, dovevano suonare come era indicato: nonostante questo, era loro i responsabili della creazione della musica. Ed è per questo che la questione dell’oggettività in una certa maniera è difficile da impostare. Dire che il compositore ‘delega’, o addirittura ‘abdica’, parte della sua soggettività in favore dei musicisti o degli strumenti generativi non è corretto. Nonostante questo, nel suo ruolo, Reuter incorpora questo ostacolo nella pratica della composizione stessa. Per dirla più chiaramente, la composizione generativa nella visione musicale di Reuter è il grimaldello che gli permette di caricare la sua musica di una componente soggettiva, senza rinunciare ad alcuna delle sue responsabilità: nasce con il suddividere il processo in diverse parti, cosa che incorpora due livelli di pensiero. E’ come avere una figura colorata sotto e sopra avere una griglia che ci si muove sopra. Nessuno dei due livelli è composto, ma generato. E’ anche un processo matematico. Praticamente prendo tre o quattro componenti che non posso controllare e la mia responsabilità artistica diventa includere una carica soggettiva in maniera che il risultato sia illuminante.  

Anche se suddiviso nominalmente in otto movimenti, le singole tracce sono separate l’una dall’altra e concepite per essere eseguite in maniera indipendente. Eppure condividono un mood, una cifra compositiva simile. L’iniziale Boon incomincia con una fuga barocca costruita intorno ad una figura ritmica, che viene variata nel corso del pezzo. Come frammenti di cadenze di Vivaldi o Bach, la melodia sembra discendere senza trovare alcuna risoluzione tonale. Ogni cambio di accordi o di melodia avviene in maniera brusca, tramite una disposizione di accenti ritmici inaspettati. I pattern, che si muovono in maniera perenne, mettono sotto i riflettori i processi generativi che hanno guidato Reuter nella composizione del pezzo. Inoltre, creano un senso di movimento che suona in una maniera simile a quello di Zauberberg. Un continuo cambiamento di visuale. In un passaggio della nostra conversazione Reuter ha spiegato questo meccanismo così: ho realizzato questa cosa quando ero a scuola, capendo che chiunque era seduto su una sedia. Quando ognuno cambiava sedia, le luci cambiavano, i colori cambiavano. Tutto cambiava solo mettendosi in punto diverso. Così ho incominciato a sperimentare con questo approccio ed ho fatto questo passaggio mentale che è stato per me importante: potevo vedere le cose da prospettive differenti facendo dei cambiamenti minimi. Questa metafora è diventata più importante al momento in cui sono andato in tour per periodi di tempo prolungati. Potevo vedere le cose in maniera differenti, attraverso diverse culture. E’ importante capire che, se si sta in un posto per molto tempo, si vede le cose da una singola prospettiva. Heartland è un buon esempio di questo. Non ci avevo pensato prima di ora, ma è come se fosse un mondo. Intendo tutto l’album. E’ come se fosse un viaggio in cui io sto sorvolando questo paese e quello che gli ascoltatori sentono è il percorso della mia prospettiva.

Il booklet racconta in maniera trasparente le sfide e i momenti difficili che Reuter ha passato nella scrittura di Heartland. Attraverso complessità logistiche, momenti poco ispirati, ha spesso rivolto l’attenzione a se stesso per capire se fosse o meno capace di completare il lavoro promesso ai suoi fan nella campagna di fundraising. Durante la composizione nell’estate precedente l’uscita del lavoro, ha richiesto il supporto ad un coach, trovato in Markus Popp, un musicista di culto degli anni ’90. Quando ha ascoltato i pezzi durante le registrazioni del 17 e 18 Ottobre 2018, eseguiti dal vivo per la prima volta, ha avvertito un sollievo, una specie di epifania che gli ha mostrato per la prima volta che quello che aveva creato poteva funzionare. Con Heartland è stata dura -ricorda Reuter. E’ stata davvero dura. Forse la composizione più difficile che abbia mai creato. Non ero mai contento o soddisfatto. Pensavo sempre che non fosse abbastanza buono. Ho anche avuto delle sessioni con il coach Markus Popp. E’ stato interessante perché, con tutti gli incontri che abbiamo avuto, una volta pensavo l’opera in una maniera e quella dopo cambiava tutto. E’ stata davvero una lotta con questo progetto, soprattutto a causa del formato prescelto, il quartetto d’archi. Ha significato pubblicare qualcosa che mi facesse vedere il mio lato di compositore. Questa ombra di dubbio fa capolino nel lavoro, e agisce come fondamenta di Heartland, contribuendo a dare al lavoro un’aura speciale: dentro di me non avevo alcun dubbio che potessi farcela -dice-, ma mostrarmi alle persone, era una cosa che mi metteva a disagio. Penso che questo disagio, o dubbio, abbia giocato un ruolo importante dal punto di vista emozionale nell’album. Maria-Paula Majoor, primo violino del Matangi Quartet, gli fa eco dal punto di vista del musicista esecutore, nonché dell’ascoltatore: penso sia piacevole che si avverta il dubbio. Questo da lo spazio per l’interpretazione e la possibilità all’ascoltatore di creare la propria interpretazione. 

In un certo senso la composizione più ricca dal punto di vista delle dinamiche e della tessitura, il movimento numero due X has taken a shine to you è stata ispirata da Our Tragic Universe della scrittrice Scarlett Thomas, che ha anche dato il titolo al movimento numero cinque. Con le sue note prolungate, meditative e senza pressoché alcun movimento tematico, questo è anche il migliore esempio dell’atmosfera creativa a cui si faceva riferimento prima. Anche se il pezzo insinua il seme del dubbio, facendo credere che prima o poi potenziali melodie possano venire alla luce, alla fine l’ascoltatore si arrende nella contemplazione di uno scenario nel quale nulla accade, e non c’è bisogno che alcunché accada. L’attenzione dell’ascoltatore è come anestetizzata attraverso una stasi prolungata attorno a una coltre di semibreve in legato e impercettibili misure in pianissimo. Passare da stati di coscienza ad incoscienza -non solo dal punto di vista del compositore- è qualcosa che sta nel cuore della visione musicale di Reuter: si può utilizzare la metafora della porta -dice il compositore-, come se ci fosse una porta tra conscio e subconscio. Sono interessato a queste porte, sono interessato ad aprirle e fare in modo che l’informazione vada dal conscio al subconscio. Voglio assicurarmi che questo processo sia circolare, cioè che ci sia qualcosa che vada dal subconscio al conscio e poi eventualmente torni indietro. Se volessi visualizzarlo, è come fare uno zoom ingrandendo o rimpicciolendo una foto.

Scrivere un quartetto d’archi significa confrontarsi con una delle forme musicali alla base della musica occidentale. Un compito scoraggiante per chiunque, che ha significato accettare una sfida ancora più grande per un compositore non accademico come Markus Reuter, che non cela simpatie per musicisti come Mike Oldfield e Klaus Schulze, decisamente poco rinomati rinomati in confronto ai maestri contemporanei. Mentre gli ultimi quartetti di Beethoven hanno giocato un ruolo nella composizione di Reuter, non ha comunque ascoltato lavori di altri durante la lavorazione di Heartland. Tobias Fischer nelle note di copertina sottolinea come, invece, il Mode de valeurs et d’intensités di Olivier Messiaen abbia una certa vicinanza con questo lavoro, avendo rappresentato una delle più importanti ‘griglie’ compositive, capace di influenzare una pletora di musicisti nel secondo dopoguerra. Mentre l’influenza del maestro francese va e viene nei pattern generativi -e qualche volta anche nelle nebulose e scintillanti scelte di accordi, Reuter gioca il ruolo dell’estraneo nel mondo della composizione contemporanea grazie ad uno stile volutamente ibrido. I pattern ritmici che scivolano su linee barocche in Netcong 63 si muovono come barconi alla deriva in mare aperto, che ondeggiano, beccheggiano via, sopra un’atmosfera inquietante. Ma il processo viene prima di tutto. Così il rigoroso e quasi piatto arazzo di minime di The Magic Universe è una specie di rompicapo, quasi irrisolvibile.

Se Markus Reuter mette il ‘processo’ di composizione in cima alla sua lista di priorità, la sua musica tuttavia è profondamente emozionale. L’emozione è qualcosa che si scopre durante il processo -argomenta. Nel senso che l’emozione è in un certo senso il risultato della ricerca. Questa probabilmente è la verità. Perché non è che io inizi a comporre e non ho alcuna idea dell’emozione, di come suonerà il pezzo o che emozione possa dare all’ascoltatore. O anche di quale emozione mi darà. Non so, semmai, quale sarà il risultato finale del pezzo. Ma ho un’idea precisa di quello che il processo stesso sarà per me, che è una cosa diversa. Nella sua carriera come musicista professionista, Reuter ha anche conseguito un PhD in Psicologia. Per dirla tutta, la musica e la psicologia sembrano due facce della stessa medaglia. La sua musica è satura di un approccio generativo, al quale le teorie della Gestalt fanno da cassa di risonanza. Gli studi scientifici che ho fatto -spiega- hanno incluso la psicologia che ho studiato negli anni ’90. Quando si parla di forme, come nella teoria della Gestalt, è qualcosa che a me viene naturale. Penso che la Gestalt sia estremamente importante in musica e che i compositori, anche gli ascoltatori, non lo sanno, ma le applicano continuamente. Il compositore Fred Lerdahl ed il linguista Ray Jackendoff nel loro A Generative Theory of Tonal Music hanno sviluppato le teorie della Gestalt all’interno di una teoria della musica basata sulla linguistica, ed è interessante constatare come anche qui ritorni la parola ‘generativo’ collegata con le teorie della percezione. Spiegando il ponte che unisce percezione e forma, i teorici della Gestalt hanno creato una lista di principi che hanno fatto luce su come creiamo segmenti nel nostro processo percettivo, e quindi di come diamo significato alla realtà stessa. Questa suddivisione di elementi che acquista la forma di una figura più grande spiega cosa è la musica. Quando lavoravo su Heartland, ciò che facevo era ascoltare, ascoltare queste cellule iniziali di melodie. Le ascoltavo per ore, e magari non era altro che una singola sequenza generata. Poteva essere lunghissima, poteva non ripetersi per giorni. Quindi le lasciavo suonare anche per una giornata interna, mentre lavoravo o facevo altre cose. Le lasciavo andare per assorbire e capire realmente cosa c’era dietro. C’era una Gestalt che stavo cercando di portare alla luce? era anche un processo difficile, perché mentre scrivevo questi materiali di base, potevo rimanere incagliato su un particolare che mi colpiva e non riuscivo ad andare avanti. A volte, quando si scopre qualcosa capace di catturarci, è molto difficile capire dove iniziare e dove fermarsi. Come ho detto prima, la cosa più importante nella musica è sapere dove iniziare e dove fermarsi.

Musica come percorso di scoperta: questo emerge dalle parole di Markus Reuter. Per esempio, per quanto riguarda il pezzo Heartland Bleeds, quando ho scoperto la struttura, suonava come fosse una sequenza anni ’70, una bella sequenza. Con gli incessanti stop e ripartente, le nervose ed allo stesso tempo gioiose esplorazioni delle capacità tecniche dello strumento, tra salti di registro, sovratoni ed armonici, Heartland Bleeds è come una melodia di una singola nota arrangiata alla maniera della musica spettrale -come nella citazione delle note di copertina. Reuter lo spiega ulteriormente nell’intervista: ho le caratteristiche di un compositore tedesco, o almeno mitteleuropeo. Sono cresciuto negli anni ’70, e questo significa che ho anche ascoltato la scuola di Berlino e simili. Anche se in verità sono solo fan della musica di Klaus Schulze, ma soprattutto perché crea un mood molto particolare. E’ qualcosa che ritrovo ora nelle cose che faccio, anche se sono molto più complicate, mantengono una freschezza simile. Sembra come ascoltare i Kraftwerk per la prima volta, che negli anni ’70 avevano un mood inconfondibile. E’ quello che provo a fare con la mia musica.

Sono interessato alle porte, sono interessato ad aprirle ed a fare in modo che il trasferimento di informazione tra conscio e subconscio avvenga.

Le persone spesso mi chiedono ‘Markus, ma come fai a fare così tante cose?’. E’ in effetti vero, Markus Reuter è decisamente un musicista molto produttivo. Mentre parliamo ha contribuito a Fractal Guitar di Stephan Thelen che è stato pubblicato quest’anno, apparirà in un paio di dischi MoonJune che usciranno durante l’anno, pubblicherà un triplo disco di registrazioni ambient per i VIP members della sua pagina Bandcamp e sta lavorando ad alcuni pezzi con Trey Gunn. Senza contare che si unirà ad altri musicisti della MoonJune per registrare nuovi album dal vivo a Barcellona, a La Casa Murada, a Maggio, oltre che andare in tour con gli Stick Men in estate e autunno. Insomma, la domanda a proposito della super-produttività rimane aperta. E’ strano a dirsi -ammette. Mi sembra di essere in grado di capire tutto. Lo penso in una maniera particolare. Non voglio dire che sappia qualunque cosa, ma quando incontro una persona sento cosa sta provando, capisco quello che sta pensando. Lo so, sto esagerando, ma quello che voglio dire è che sento una connessione con un certo mondo spirituale dove le cose sono molto chiare. Sento molta chiarezza nel mio avere entrare in contatto con il mondo. Che significa anche che mi sento saturo molto facilmente. E’ come se non ci fosse filtro. Quello che provo a fare è praticamente creare un filtro che mi da qualcosa in cambio da questo mondo che mi da ispirazione. 

Heartland è un lavoro basato sulla creazione ed elaborazione di una griglia che permetta alle note di eruttare fuori da un vulcano. Ed è un viaggio in una terra sconosciuta, inframezzato da momenti esaltanti. A proposito di esaltazione, lo psicologo Mihaly Csikszentmihalyi, che ha creato una teoria nota sul ‘flow’, la definisce come quella condizione dove la concentrazione è così intensa che non c’è spazio per pensare ad alcunché di irrilevante, o preoccuparsi dei problemi. La coscienza sparisce ed il senso del tempo si distorce. Un’attività che produce questo tipo di esperienza è così gratificante che le persone vogliono farla solo per il piacere di farla, preoccupandosi poco di quello che potrebbero ottenerne in cambio, o se sia difficile o pericolosa. Ma come si verifica questa esperienza? (Mihaly Csikszentmihalyi , Flow, HarperCollins). Csikszentmihalyi risponde a questa domanda dicendo che il ‘flow’, l’esaltazione, si verifica a cavallo tra due condizioni, l’ansia e la noia. Nella finestra stretta che separa l’ansia da prestazione dalla noia causata da un insufficiente livello di sfida, l’esaltazione funziona da interruttore creativo che scatena esperienze di gioco, sia che si parli dell’atleta, del musicista o anche dell’ascoltatore. E’ interessante, anche se non sorprendente visti i suoi studi, constatare che Reuter riconosce un valore nella noia in rapporto all’atto creativo. In particolare quando dice: mi interessa tutto quello che è umano, che rende ‘umano’ l’umano. E’ interessante perfino la noia, se ci pensa un attimo. Gli animali non addomesticati, ovvero quelli allo stato brado, sono mai annoiati? (a questo punto ho risposto che i gatti sono spesso annoiati). Ma sono animali addomesticati, non vivono più allo stato brado! -ha replicato. Così quello che mi interessa è la ragione per cui viviamo su questo pianeta e siamo convinti di esistere. Sono interessato in ciò che rende speciale questa esistenza. Come per la noia, è una di queste cose! In un certo senso, è come una motivazione, è un aspetto che spinge le persone a creare. 

Cosa ci si può aspettare dopo HeartlandPer me Heartland è in un certo senso la fine, per ora. Non la fine per sempre, ma è come se potessi riminciare da zero. Ti annoierai -chiedo? Sai, quando mi annoio, suono la touch guitar. Tenersi in esercizio è molto simile a fare ricerca. Non c’è un risultato da cercare per forza, non c’è l’urgenza di registrare, mi posso concentrare solamente sul mio corpo e sui movimenti. Non nuove idee, ma nuovi movimenti. Heartland rappresenta la visione di Markus Reuter allo stato puro. Un lavoro capace di creare ponti tra il conscio ed il subconscio, tra la sua visione e le singole note, tra l’ascoltatore e l’esecutore, un viaggio nella profondità, nella meditazione, nelle difficoltà, fino ad arrivare ad una bellezza scintillante.

M’inganneranno, forse, la vecchiezza e il timore, ma sospetto che la specie umana – l’unica – stia per estinguersi, e che la Biblioteca perdurerà: illuminata, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta. (Jorge Luis Borges, La Biblioteca di Babele, Finzioni)

Markus Reuter
String Quartet No.1 ‘Heartland’
Matangi Quartet
Maria-Paula Majoor, violin 1
Daniel Torrico Menacho, violin 2
Karsten Kleijer, viola
Arno van der Vuurst, violoncello

  1. Boon
  2. X has taken a shine to you
  3. Netcong 63
  4. Dwell on a Star
  5. The Tragic Universe
  6. Zauberberg
  7. Heartland Bleeds
  8. The Magic Universe

Solaire Records SOL1008

Tutte le citazioni sono tradotte dall’inglese all’italiano dall’autore, ad eccezione di Jorge Luis Borges, La Biblioteca di Babele, Finzioni, ed. Adelphi.