Madame Octave, il mio tempo non é poi così prezioso; chi l’ha fatto non ce l’ha mica venduto
(Marcel Proust, Dalla parte di Swann)
Quando, nel Novembre del 2004, Keith Jarrett stava per tornare a suonare in solo dal vivo per tre date in Europa dopo un’assenza durata otto anni, le aspettative era indubbiamente altissime. Le notizie della malattia, che gli aveva impedito di suonare dal vivo negli anni precedenti, se non in trio o con l’eccezione di poche sparute performance in solo in Giappone, aveva giocato un ruolo importante nell’accrescere l’attesa. Non era la prima volta che Jarrett prendeva una pausa. Ma non era mai successo che la pausa fosse così lunga. Per la prima delle tre serate una folla da tutto esaurito si era riunita nella sala di Santa Cecilia dell’Auditorium di Roma, con alla testa l’allora sindaco della città, Walter Veltroni, un fan della prima ora del pianista. Uno chiacchiericcio inquieto da prima al teatro, misto ad un silenzio quasi ieratico, una specie di tensione sotterranea, precedettero l’entrata in scena del musicista. Jarrett era una star capace di riscuotere attenzione e affetto, un artista globale, che ammaliava il suo pubblico da parecchi decenni con concerti caratterizzati da una cifra quasi mistica. E questo pubblico attendeva l’evento con una chiara aspettativa in mente. Attraverso eccezionali registrazioni pubblicate in carriera, Jarrett aveva forgiato un nuovo livello di capacità improvvisativa e creato un pubblico a parte, ad un livello irraggiungibile per qualsiasi altro artista jazz. Quando dopo diciassette minuti di concerto in cui era prima entrato sul palco senza dire una parola, iniziato ad erompere linee contorte e quasi atonali di improvvisazione, era stato disturbato dai colpi di tosse e, quindi, aveva interrotto la musica, dopo questo lasso di tempo, era chiaro a tutti che quell’aspettativa era andata in frantumi. Non c’era nessun Köln Concert all’orizzonte. Scordatevi melodie flautate, temi pastorali. Preparatevi, invece, per uno stridente magma sonoro, un’eruzione proveniente da un vulcanico e contorto io, che era pronta a coprire di lava ogni aspettativa che il pubblico potesse per sbaglio aver coltivato. Molte persone alla fine del concerto sostennero che, magari, si fosse trattato di una momentanea deviazione dalla norma da parte di un artista che aveva ancora bisogno di tempo per recuperare se stesso e quella capacità di allietare le persone con una musica angelica. Ma era sbagliato. Questa era la nuova direzione, e il pubblico avrebbe presto dovuto accettarlo. Ma una direzione verso dove esattamente?
Nato ad Allentown, in Pennsylvania, nel 1945, Keith Jarrett ha attinto da diversi stili in maniera eclettica ed idiosincratica, ma, soprattutto, ha sviluppato una capacità unica di declinarli. Riconosciuto come un prodigio sin da bambino, è cresciuto con musica classica, jazz, gospel, folk americano, blues e pop attorno a lui, ed è stato capace di mescolare senza fatica questo materiale eterogeneo all’interno delle sue improvvisazioni. Ha iniziato la carriera alla metà degli anni ’60 con Art Blakey, per poi andare a far parte della band di Charles Lloyd, con il quale per la prima volta si è imbarcato in un tour europeo, ed, infine, ha suonato con Miles Davis nella sua formazione del 1970. In tour con il trombettista ha suonato, una delle pochissime volte nella sua carriera, uno strumento elettrico e, sempre durante la stessa tournée, ha avuto occasione di iniziare il suo matrimonio artistico con la ECM. Tra una data e l’altra il produttore Manfred Eicher lo ha contattato per registrare una sessione da solo ad Oslo, al glorioso Rainbow Studio. Quello sarebbe diventato Facing You, il primo di diverse dischi che avrebbe pubblicato per ECM: presto avrebbe esplorato le possibilità offertegli da molteplici gruppi, dall’European Quartet (così chiamato per differenziarlo dall’American Quartet con il quale suonava nello stesso periodo), oppure in Trio con Haden e Motian, con Jan Garbarek, e presto con lo Standards Trio, che sarebbe diventato, dagli anni ’80 in poi, la sua formazione più longeva. Si è anche avvicinato alla musica classica, eseguendo lavori in piano solo, o con orchestra. E si, non bisogna dimenticare le sue registrazioni in solo.
Ho smesso di prendere lezioni di musica classica più o meno a quindici anni e mezzo. Continuavo a cambiare delle note nelle composizioni di Mozart e non era una buona idea
Keith Jarrett, Il Mio Desiderio Feroce, Socrates Edizioni, 1994
Eicher e Jarrett hanno creato negli anni una relazione artista-produttore unica nel suo genere. Il pianista ha sottolineato come non avrebbe esplorato la via dei concerti in solo, se non fosse stato per Eicher. Il produttore tedesco lo ha supportato mentre cambiava il linguaggio dell’improvvisazione ed il suo ruolo in questo processo é, in una certa maniera, ancora da raccontare. Quando, nel 1972, Jarrett doveva suonare alcuni concerti da solo in Germania, la direzione verso la quale si stava dirigendo divenne ben presto chiara. Ad Heidelberg quell’anno iniziò la performance con una lista di canzoni in mente, ma, invece di terminare di suonare tra un pezzo e l’altro, continuò a suonare senza pause. Connettendo le tracce con improvvisazioni, queste transizioni divennero sempre più invisibili, con il risultato che la musica divenne un flusso continuo di melodie interconnesse. Questa fu la base per le future improvvisazioni dilatate. L’arte del piano solo raggiunse un picco di creatività impensabile prima di Jarrett: a cominciare dal debutto di Solo Concert: Bremen/Lausanne, pubblicato in un coraggioso formato di tre LP, proseguendo all’ultra-celebrato Köln Concert, fino all’opera omnia rappresentata dai 10 LP dei Sun Bear Concerts, registrati sul finire degli anni ’70. In quasi un decennio il pianista ha sviluppato un corpus espressivo capace di raggiungere la complessità strutturale della forma-sonata, mischiata con una inimmaginabile profondità del linguaggio improvvisatorio. Un punto di congiunzione, non facile da concepire prima di lui, tra le influenze di Johann Sebastian Bach e Cecil Taylor. Laddove i Sun Bear Concert hanno in un certo senso rappresentato il picco più alto dell’arte del suo solo, il decennio successivo vide Jarrett impegnarsi a distruggere questa architettura perfetta e, soprattutto, l’aspetto di prevedibilità all’interno dei suoi schemi.
Mi sono reso conto, quando abbiamo registrato il concerto di Vienna, che forse per la prima volta, avrei avuto la possibilità di liberarmi delle tossine del Köln Concert. perché era assolutamente il contrario. Il punto di riferimento nel Vienna Concert non è la musica: é la gestalt che sta dietro di essa.
Keith Jarrett, Scattered Words, 2003
Registrato nel 1991, Il Vienna Concert ha immediatamente guadagnato la fama di una nuova epifania tra i concerti in solo nella discografia del pianista. Quest’opera usciva al termine di dieci anni travagliati dal punto di vista delle performance e caratterizzata da molteplici difficoltà dal punto di vista personale: nonostante tutto, era stato anche il momento della nascita dello Standards Trio, del rinnovato interesse nei confronti del repertorio classico e della rinvigorente esperienza rappresentata dalla registrazione di Spirits. Dal punto di vista dei concerti in solo, questi anni hanno rappresentato un momento di rottura delle forme precedenti. Il Vienna Concert ha sempre lo stesso formato da quaranta minuti, al quale Jarrett ha raramente fatto eccezione tra il ’72 ed il ’96. Mantiene la stessa ricchezza di melodie tonali e di flussi improvvisativi. Quello che cambia é un approccio completamente nuovo alle strutture musicali. Laddove l’urgenza di creare strati di melodie, di cambiare in maniera veloce l’atmosfera muovendosi tra un tema ed un altro aveva fatto il successo della precedente ‘architettura’ ed era la vecchia norma, ora era il momento di distaccarsi da questo e focalizzarsi su un diverso livello d’espressione. Indagando senza sosta attorno agli stessi nuclei tematici per circa quattordici minuti, la prima parte del Vienna Concert seguiva un passo completamente nuovo. Jarrett lasciava la musica scorrere, l’ascoltava, suonando le note senza fretta. Si prendeva cura di qualcosa che stava sotto la superficie. Stava esplorando un diverso senso del tempo. Le forme precedenti erano andate in frantumi. Eppure, quel senso del tempo, il senso dell’esplorazione sotto la superficie che aveva approfondito in maniera così profonda nei solo degli anni ’80, era ancora lì. Da questo punto di vista, il Jarrett che del Vienna Concert é pù vicino a quello dei concerti degli anni ‘2000, come La Fenice, piuttosto che a quello del Köln Concert.
Nella prima parte di questa decade, ho provato a portare dal vivo il vecchio formato: partire dal nulla e costruire, quindi, un universo. Ma in una certa maniera, mentre provavo nel mio studio, ho capito che molto di quello che suonavo erano cose che mi sarebbero piaciute prima, ma non erano esattamente quello che mi piaceva in quel momento. Quando mi fosse capitato di suonare qualcosa dal passato e avesse suonato in maniera meccanica, mi sarei fermato. Questo mi ha portato ad includere queste pause nei concerti da solo in Giappone
Keith Jarrett, Testament Paris/London, 2009, booklet
Nel corso dei concerti in solo negli anni 2000 iniziare con lunghe improvvisazioni atonali, spogliate di qualunque centro tonale e caratterizzate da figurazioni melodiche che vagavano senza trovare risoluzione, è diventata la nuova norma. Un’overture tuonante, un mucchio di accordi suonati con un attacco deciso, quasi una citazione di Liszt, é questa oscura impetuosità ad aprire la prima parte de La Fenice. Immediatamente parti sovrapposte, frammenti di temi galleggianti, vagano in superfice, mentre timbriche e metriche mutevoli si avvicendano più in profondità, quasi nascoste, negli strati della musica. Molteplici temi iniziano a girare in contrappunto a velocità via via differenti, attraverso vortici di energia pronta ad esplodere. Quando Jarrett piazza un pattern di due note sul registro alto intorno ai due minuti, è come se fosse il tassello per le vie future che l’improvvisazione sta per prendere. Ripetuto più volte fino ai cinque minuti, questo frammento di informazione sonora agisce come punto di inzio e fine tra i fraseggi. Ognuno di questi raggruppamenti di accordi discendenti e scale é un flusso di melodie frammentate, che a loro volta sono cariche di un forte senso di ricchezza ritmica. Scegliendo di liberarsi della necessità di ricercare una risuoluzione tonale, Jarrett è libero di entrare ancora di più nel profondo dell’esplorazione ritmica. Un secondo tema chiave entra a circa cinque minuti della Part I: inizialmente abbozzato, fino a crescere e rivelarsi come una scala simmetrica discendente. Questo frammento riapparirà ancora nei minuti seguenti, funzionando come un elemento chiave dell’esplorazione. Attraverso tuonanti linee sulle note basse, Jarrett tiene il livello di tensione al massimo fino a circa sei minuti e mezzo. La variazione seguente del secondo tema è eseguita a velocità vorticosa, stavolta sul registro alto. E, accompagnata dall’usuale mormorio del pianista, discende verso il registro medio intorno agli otto minuti. Dopo poco le linee veloci perdono importanza da un punto di vista musicale: prima Jarrett accenna ad una specie di stride piano a nove minuti e quindici, poi raggiunge un altopiano sonoro piazzato su un pattern ripetuto, fino a che il volume si abbassa. Dopo pochi secondi un tema danzante, una variazione del tema discendente che avevamo ascoltato quattro minuti prima, finalmente brucia tutta la tensione e trova una risoluzione.
In un’intervista con il pianista Ethan Iverson nell’ottobre del 2013 per la rivista Downbeat, Keith Jarrett aveva indicato Elliott Carter come una sua recente scoperta. Jarrett ha spesso tratto influenza dalla musica classica, ed ha un corpus di registrazioni del repertorio classico che include lavori composti da compositori che vanno dal settecento al novecento. Ha registrato in solo lavori di Bach, Handel e Shostakovich. Ma non aveva mai approcciato o fatto menzione di Elliott Carter prima, un compositore che ha messo le basi per una nuova via di esplorazione del senso del ritmo nella musica contemporanea. E’ una specie di epifania per chi vuole approfondire la musica degli ultimi due decenni di Jarrett: analizzando la maniera in cui il pianista ha manipolato molteplici raggruppamenti ritmici e li ha fatti muovere a differenti velocità, o come ha esplorato tutto lo spettro della ricchezza ritmica in una maniera diversa rispetto al passato, c’è un’enorme influenza di lavori per il pianoforte del compositore, come ad esempio la Piano Sonata oppure Night Fantasies.
In arte quello che é interessante é la struttura dell’evoluzione, della via che le coe prendono. Si può parlare di sviluppo, di inizio, di fine in tanti modi, ma, secondo me, l’idea di sviluppo é la cosa più interessante della vita
Elliott Carter, in AAVV, Carter, EDT, 1993
Part I de La Fenice ha due facce: un segmento da dieci minuti che ruota attorno ad una esplorazione vulcanica di strutture ritmiche dense e complesse, seguita da sette minuti di modulazioni che si muovono in maniera involuta. La traccia é troncata e divisa in due metà, ma, nonostante tutto, mantiene un senso nascosto del tempo che appone un marchio indelebile su quello che sarà il resto della performance. Durante i primi dieci minuti il pianista mette in campo una struttura di strati ritmici, apparentemente legati solo dall’aspetto esplosivo dell’energia. Ciò che li connette è la struttura invisibile sottostante. Il musicologo Fred Lerdahl ed il linguista Ray Jackendoff, i quali hanno sviluppato una teoria del ritmo nel loro lavoro A Generative Theory of Modal Music, hanno teorizzato come sequenze minime tematiche, pezzetti di melodie sono raggruppate insieme nell’atto dell’ascolto in raggruppamenti ritmici. Invece di parlare di come gli accenti interagiscano con la struttura metrica, cosa che aveva caratterizzato il paradigma precedente, si sono focalizzati su come questi pezzi si relazionino, creando una mappa strutturale del ritmo. Ogni traccia crea la propria struttura del ritmo, una gerarchia che segue regole che, invece, rimangono sempre costanti. Come questa gerarchia interagisca e entra in conflitto con gli accenti sottostanti piazzati sulla metrica, questo è ciò ce crea il ritmo. Part I de La Fenice è una partitura virtuale, una mappa di questa gerarchia che Jarrett mette in atto nella sua improvvisazione. Analizzare questa traccia solamente dalla prospettiva di dove gli accenti ed i battiti siano posti, non chiarisce la struttura organica. Invece, guardare a questo tumultuoso bagaglio di frammenti che girano in vortice come fossero forze tettoniche che vengono dal centro della terra, come raggruppamenti che entrano in conflitto l’uno con l’altro, questo sembrerebbe disvelare come questa forza venga rilasciata.
Quello che mi interessa è tornare indietro alla sorgente. Vado oltre la rabbia, alla ricerca dell’energia che la provoca. Può darsi che uno ci senta la rabbia, quando suono, ma non è quello. È ancora la ferocia.
Keith Jarrett, Il Mio Desiderio Feroce, Socrates Edizioni, 1994
Cosa succede quando due segmenti entrano in questo conflitto, quando un motivo frammentato anticipa un altro, per poi riapparire alla fine di un’improvvisazione, perchè il moto veloce sul registro alto e basso provoca brividi corporali, questo può essere spiegato da questa mappa che ha come assi gli accenti metrici ed i raggruppamenti ritmici. Nonostante stia improvvisando ed esplorando terre sconosciute, Jarrett é capace di creare una coerenza che ha le stesse caratteristiche di una partitura complessa. La sua abilità di connettere una tela invisibile attraverso lo sviluppo tematico, di atmosfere, di sezioni é una delle ragioni dietro la sua capacità inarrivabile di suonare in solo. Considerare che il processo compositivo avvenga in un contesto dal vivo é perfino secondario, visto da questa prospettiva. Keith Jarrett sembra sempre capace di infondere alla sua musica improvvisata lo stesso meccanismo rinvenibile in quella scritta. Crea il palcoscenico e posiziona la sua musica in una terra dove, anche grazie alla sospensione dell’incredulità ed una fede quasi mistica nella figura dell’artista da parte dell’ascoltatore, manteniene un aspetto di inesplicabile magia durante il processo creativo.
Se il filo é invisibile, dove si dirige la musica? Il musicologo Jonathan Kramer identifica due forze alla base del tempo nella musica, la linearità e la nonlinearità. Dal punto di vista delle definizioni, la linearità é la determinazione di alcune caratteristiche della musica secondo le implicazioni che emergono da eventi precedenti nel pezzo, mentre la nonlinearità è la determinazione di alcune caratteristiche della musica secondo le implicazioni che emergono da tendenze che governano un intero pezzo o sezione. Entrambe le forze operano allo stesso momento, non importa se stiamo parlando di musica tonale o atonale, improvvisata o scritta: la linearità appare negli elementi processivi, come lo sviluppo armonico, il movimento melodico, le cadenze; la nonlinearità, invece, non è processiva, ma si può trovare nelle premesse della musica stessa. Ad esempio, ci si aspetta che un blues abbia dodici battute e ci si possano rintracciare cadenze ben specifiche.
Keith Jarrett gioca con la linearità in maniera sfaccettata. Nella Part I crea una molteplicità di tempo che trova una soluzione apparentemente nei minuti iniziali. Tuttavia, la seconda parte della traccia, con i suoi movimenti di accordi, mantiene una molteplicità irrisolta e incerta sulla direzione da prendere. E’ interessante notare che l’ultimo Jarrett spesso piazza questo tipo di esplorazione aperta del tempo all’inizio dei suoi concerti, una specie di sguardo su quello che sta per succedere nel resto della performance. E’ molto simile a quei lavori che lo stesso Kramer definisce nella categoria del ‘tempo a molteplici direzioni’: il tempo è organizzato in segmenti discontinui, che costantemente riordinano il senso del tempo. L’ascoltatore percepisce una sorta di linearità, ma non a livello superficiale. Il blues della Part III, che è la perfetta occasione per il fraseggio gioioso di Jarrett, crea, invece, un senso di prolungata stasi. Non solo il ‘tempo a molteplici direzioni’ o il ‘tempo lineare’, che segue una linea perfetta dall’inizio alla fine, alcuni lavori possono essere classificati nella definizione di ‘tempo verticale’: il tempo é esteso ad una durata estrema e lo sviluppo tematico non sembra seguire un ordine gerarchico, cosa che può essere rintracciata tipicamente nelle composizioni minimaliste. Anche se non si applica perfettamente alla Part III, è interessante notare come Jarrett crei questo vasto altipiano sonoro ed il senso di verticalità connesso. Questo senso del tempo non è direttamente legato al fatto che una composizione sia tonale o atonale. La Part II é una cascata sparpagliata di fraseggi nervosi, che comunque regge una chiara linearità. Jarrett va su e giù per i registri del piano, comincia e si riferma, ma comunque suona il giro di accordi all’intro e poi alla chiusura, creando una specie di arco temporale. La Part VI ha a sua volta una chiara direzione, ma da un punto di vista completamente diverso, poichè un pezzo decisamente più lungo -tredici minuti contro i tre della Part II. Attraverso una progressione lineare nel tempo, l’energia si accresce in un crescendo, finchè a circa otto minuti e mezzo raggiunge un livello così alto che, quando Jarrett suona un singolo accordo momentaneamente fuori fase, risuona rispetto al resto e spinge il livello d’attenzione al massimo, verso un momento di chiarezza emotiva.
Sotto la superfice Jarrett gioca con la nonlinearità e con la maniera in cui il pubblico si aspetta che il tempo venga sviluppato. Il pianista sembra seguire un copione segreto e si possono rintracciare elementi simili andando ad ascoltare come spesso apre i suoi concerti, o dove colloca determinati tipi di improvvisazione, per quanto é possibile analizzarli in questa maniera. Anche se c’é un sottile senso di coerenza nella maniera in cui esegue le sue improvvisazioni tra i vari concerti, ciò che succede a livello superficiale mantiene un carattere di unicità e di imprevedibilità; e, soprattutto, la traccia sottostante rimane nascosta. La Fenice è una foto di un momento in cui il pianista ha preso una chiara direazione e non va, invece, confusa con una fase transitoria, come molti avevano pensato dopo i concerti del 2004.