Eivind Aarset – I.E. [2015]
Il chitarrista norvegese Eivind Aarset ritorna in Jazzland con I.E. dopo la parentesi ECM di Dream Logic, sfornando l’album più bello dopo il capolavoro d’esordio datato 1998. Proprio come Electronique Noire é stato l’album che ha rivelato la sua abilità tremenda sullo strumento e nel governare manopole, effetti, delay e riverberi per produrre una miscela di ambient, jazz, urban, rock, così I.E. é uno di quegli album che porta una visione completamente nuova dell’incrocio tra post-rock e jazz.
Rispetto all’ultimo Dream Logic dove il minimalismo veniva portato ad un estremo glaciale, ora i pezzi sono marcati da un’evoluzione al loro interno, attraversando diversi stati, a volte potenti, a volte sinistri, ed a volte -anche- minimalisti. Così Rask, che apre l’album, passa da un’intro gamelan, ad uno strumming croccante e veloce, quindi al primo tema -una fusion fredda ed intricata a la Jaga Jazzist- ed infine ad un solo potente, ricco di riverberi e corpo -vedi Dark Moisture.
Tracce spesso più lunghe del solito Aarset. Wanderlust, uno dei due pezzi sopra i 12 minuti, é divisa in tre parti. La prima parte, The City is Awake, si muove attorno ad un tema quasi cantabile sopra una ritmica piacevola, quasi drum’n’bass, puntellata dagli interventi orchestrali sparsi qua e là nell’album. Nel momento di massima crescita la seconda parte, Overgrown, entra con uno stacco netto: Audun Erlien al basso, con le due batterie di Wetle Holte ed Audun Erlien che martellano in maniera instancabile, stacca una ritmica incisiva e sinistra. Sopra Eivind costruisce una lunga sequenza noise in dialogo con i rumori di Jan Bang, che co-produce l’album. La chiusura nella parte finale di View from Above é eterea, costruita su un pedale di un accordo in clean che ricorda addirittura, grazie alla chiusura orchestrale, il Pat Metheny di Secret Story.
Più fluida é l’evoluzione dell’altra traccia oversize Through clogged streets, passed rotten buildings…. Stavolta uno svolgimento più lento, psichedelico e sinistro, amplificato dalla voce distorta di Lorenzo Esposito Fornasari. Un riff quasi da Red Hot Chilli Peppers introduce un tema inquietante costruito su intervalli ed accordi dissonanti con il distorto a martellare sulla ritmica in 4/4. Eivind snocciola un solo in wah wah granitico ed avvolgente. E l’arrivo della voce aumento lo straniamento quasi industrial del pezzo. Nella seconda parte Eivind crea l’inquietante tappeto su cui la voce di Esposito Fornasari, che sembra quasi richiamare gli episodi più sperimentali di David Sylvian, sputa parole a metà, tranciate ed rigirate.
Un album più post-rock che jazz, o almeno a metà: One and the Same parte come una rilassatissima ballad quasi doo-woop, Eivind che sembra quasi suonare una semi-acustica, ed un tappeto orchestrale e a sostenere. Se non fosse per Jan Bang ad instillare inquietanti suoni, magari non si capirebbe cos’é. Poi la distorsione aumenta mentre il pezzo cresce muovendosi attraverso più modulazioni. Fino a raggiungere l’apice con uno dei più struggenti soli di Eivind.
Il sound di Connected e Light Extracts, fatto soprattuto di pezzi suadenti, temi sempre scarni e tappeti quasi nascosti é presente in Sakte ed in Hidden/Feral. Proprio nel caso di quest’ultima traccia, laddove il vecchio Eivind avrebbe sviluppato il tema minimale dall’inizio alla fine, ora invece pianta su un riff tribale di Audun Erlien una ritmica crunchy su cui può giocare in mille rumori, urli e giochi di leva, quasi come ai tempi di Tlon di Nils Petter Molvaer.
Il tappeto ambient di Return to her Home chiude I.E., un album che lascia la sensazione che una nuova strada é stata aperta. Il jazz norvegese negli ultimi dieci anni é passato dalla rivoluzione elettronica ad una tendenziale stagnazione, no anzi, più corretto, standardizzazione di idee. E questo da ancora più risalto alle novità in questo lavoro.