Luca Sguera – AKA [Auand, 2019]
Recensione + intervista con Luca Sguera, Gennaio 2019
Mentre mi preparavo per l’intervista con il pianista Luca Sguera, ho colto l’occasione per ascoltare ancora una volta il suo album di debutto, AKA. Devo aver dato attenzione, in mezzo ad un flusso di musica spesso ribollente, magmatica, ad alcuni temi, alcuni episodi, che si sono sedimentati nella mia memoria come fiocchi di neve che si posano a terra, in maniera quasi distratta. Uno in particolare, una figura di piano in staccato, si era materializzato quasi dal nulla, nel mezzo della traccia Breathe, con un’aura magnetica. Tutto quello che era avvenuto prima sembrava aver preparato per quel momento. Quando ho cambiato album nella playlist, quelle memorie sono tornate alla luce, esattamente nel momento in cui stavo ascoltando il duo di pianoforte tra Vijay Iyer e Craig Taborn, ovvero The Transitory Poems, appena uscito nel 2019 per ECM. Nella prima traccia compariva una figura di pianoforte molto simile, ripetuta più volte, creando un vortice discendente di intervalli dall’ampiezza fissa. Anche se il tema suonato dai due maestri del pianoforte non aveva nessuna stretta similarità dal punto di vista armonico o melodico con quello di Luca Sguera, comunque sembrava detenere un ruolo simile nello sviluppo del pezzo. Come fosse una porta che si schiude, aprendo ad un nuovo punto di vista, in un momento inatteso, sembrava stare lì scavare ancora di più in un’archeologia di influenze provenienti da diversi punti del passato. Non si discute chi abbia influenzato chi -entrambi i lavori sono stati pubblicati questo anno, quasi allo stesso momento. È, invece, interessante focalizzarsi su come Luca Sguera ed il suo quartetto abbiano esplorato un’archeologia di influenze similare, un sostrato culturale che appartiene anche a Taborn e Iyer, con una forte personalità e con una visione molto matura.
Luca Sguera è alla guida di una line-up di giovani che hanno nel loro background il free-jazz degli anni ’60 quanto il jazz contemporaneo, quanto l’elettronica ed i ritmi Africani. Il pianista, che è anche il compositore principale di un quartetto che alterna improvvisazione e scrittura con un alto livello di padronanza, sta completando il suo percorso di studi in giro per l’Europa. A queste attività alterna l’esplorazione di elettronica e post-rock con le formazioni She’s Analog e con i Goodbye, Kings. Nel momento in cui ci incrociamo per una chiacchierata, sta per completare un ciclo di sei mesi a Copenhagen, in attesa di spostarsi a Berlino, prima di tornare definitivamente in Italia. Alessandro Mazzieri, il bassista elettrico del quartetto, è anche lui all’estero, ad Amsterdam. A completare la line-up ci sono Francesco Panconesi al sax tenore e Carmine Casciello alla batteria. I quattro si sono incontrati mentre studiavano ai seminari di Siena jazz. Al loro primo concerto dal vivo, al jazz club Un Tubo di Siena nel Novembre 2017, il sassofonista Dan Kinzelman era nel pubblico e li ha incoraggiati ad andare avanti, ha offerto supporto e il suo studio mobile. Passa poco tempo, nel Gennaio 2018, ed i quattro si ritrovano nelle aule di Siena jazz a registrare quello che poi sarebbe diventato AKA, grazie alla produzione di Kinzelman stesso.
AKA è un lavoro con alle spalle una visione chiara, un suono profondo, stratificato, ed un approccio approfondito dell’interplay. Mescolando i linguaggi del free-jazz con la contemporaneità, il quartetto mantiene un approccio unico. Il nome dell’album viene dalle parole di Simha Arom a proposito della popolazione Africana: La musica degli AKA è collettiva e tutti partecipano; non vi è una gerarchia apparente nella distribuzione delle parti; ogni individuo sembra godere di una completa libertà; le voci crescono in tutte le direzioni. Il ricercatore, il cui lavoro ha ispirato tra gli altri compositori come Steve Reich e Luciano Berio, è stata una fonte importante per modellare l’approccio collettivo del quartetto. Nelle composizioni ho cercato di scrivere del pezzi che fossero aperti –dice Sguera, che avessero un ordine sottostante e noi potessimo suonare sia con un riferimento, ma anche liberamente. Ero attratto dalla dialettica che ci può essere tra una struttura, che se vuoi può essere una struttura armonica, ritmica, e, invece, quella che è l’improvvisazione e la sensibilità di ognuno di noi ed il sono del gruppo in generale. L’iniziale (h)opening comincia con gli armonici di basso che scivolano attraverso glissandi provocati dalle meccaniche dello strumento. All’improvviso tutti e quattro insieme entrano in scena. Piano e batteria prorompono in un dialogo nervoso e frammentato: Sguera sembra suonare intorno a strutture armoniche di dominante, ma senza tenere una precisa direzione armonica. Il sax tenore ed il basso elettrico contribuiscono a mantenere un continuo pattern nel registro basso, quasi come un drone, con Panconesi che mette in mostra un suono lirico, profondo, ma anche molto scuro. Sguera aggiunge ulteriori dettagli a proposito di questa traccia, totalmente improvvisata: mi piace pensare che siano due forze, due anime, da una parte basso e sassofono che hanno un’anima più solida armonicamente, che sta sotto, e, invece, un’anima più frammentata di ricerca continua da parte di pianoforte e batteria. Che poi proprio alla fine sulle ultime note confluiscono insieme.
Lo spirito, che ha guidato più la musica del disco ed ancora adesso mi muove e ritrovo nella musica che ascolto, è quello di una tensione fra quello che è ordinato, gerarchie, geometrie, architetture di una composizione e, invece, il lato più caotico, imprevedibile, destrutturato
Attraverso l’intero AKA, l’improvvisazione si nascondo sotto il tappeto della composizione e viceversa, in maniera molto sottile. La densità e la profondità sono i tratti distintivi di questo lavoro. Breathe dà ulteriore spessore a questa densità: è come muoversi in una delicata conversazione, un’aurea notturna avvolge la traccia, pur senza mai scadere nel sentimentalismo. Francesco Panconesi fa sentire la respirazione nel suo sax mentre suona un tema quasi confidenziale, con quel tipo di intensità e con quel graffiante soffio di un Joe Lovano. Sguera e Casciello rimangono in disparte: il piano entra solamente dopo il solo di basso di Mazzieri, che a sua volta gioca su scale e glissandi con incredibile acutezza. Luca Sguera crea lo spazio per il tema di piano in staccato menzionato all’inizio. Gli altri tre non entrano sopra di lui, evitando di incrementare l’intensità del momento ed il livello delle dinamiche del pezzo, piuttosto sottolineando in maniera intelligente il solo del piano. Uno dei miei interessi principali è il ritmo. A volte penso che avrei dovuto suonare la batteria -dice Sguera. Ritrovarsi con un batterista come Carmine, che è molto competente, tecnicamente preparatissimo, ti dà la possibilità di sperimentare tante cose. E’ stato poi lui a proporre quel tipo particolare arrangiamento di quella parte di Breathe in cui giochiamo un pò con la contrazione ed espansione della trama ritmica.
Feldman esplora il concetto di densità partendo da un punto di vista differente, ovvero quello di un suono statico, orizzontale. Un approccio cameristico, che però non diventa mai troppo austero, oppure accademico. Panconesi lavora un tema in loop su tenore -è dal loop che la traccia è stata intitolata al compositore Morton Feldman. Batteria, basso e piano lo puntellano con un ritmo angolare, ma sottile, non invasivo. L’influenza di Feldman è soprattutto nella prima parte del brano -dice Sguera, in questo loop di sassofono che è armonicamente un po’ ambiguo, un pò ripetitivo. Ma anche nelle soluzioni armoniche della melodia, che sale al di sopra di questo loop. Per quanto riguarda il loop c’è anche l’influenza di un musicista come William Basinski, che mi ha da sempre affascinato. Quando usa i nastri con questi loop di pianoforte in qualche modo ricorda Feldman. Nel suo modo di suonare ricorre questa ripetizione, questa staticità armonica della musica. Intorno ai quattro minuti e mezzo i quattro si uniscono in un pattern ripetitivo che segna l’ingresso del piano in solo. In un labirinto di ritmi, di partenze e stop, di sovrapposizioni di misure, Sguera delicatamente accende la miccia della traccia. Questa esploda nell’incendio finale, nel momento in cui i quattro creano un muro di suono mirabolante: questo pezzo è quello in cui esploriamo di più tutte le dinamiche: parte con un inizio ipnotico, fino ad arrivare a quest’esplosione nel finale in cui io e Dan ci siamo divertiti a cantare la melodia.
Uno dei miei interessi principali è il ritmo. A volte penso che avrei dovuto suonare la batteria
Laddove Feldman è la traccia più lunga dell’album, con la durata di oltre nove minuti, And We Found Ourselves Talking Machine Language è la più breve, con il suo minuto e mezzo. Un inizio dirompente, debitore dell’intensità di Cecil Taylor, mette in mostra un’aggressività che progressivamente sfocia in un ipnotico pattern ripetitivo di basso e pianoforte. Luca Sguera indica ulteriori dettagli: ci sento un’attrazione dal punto di vista ritmico, un’attenzione da quel lato. Quello che per me è stato uno spunto per un lavoro successivo al disco, ovvero sto lavorando in quella direzione lì. Creare delle idee ritmiche che possano produrre un effetto simile, composte, ma con un effetto possa essere simile a quella traccia improvvisata. Una sorta di contrappunto ritmico, in cui ogni suono ha una propria identità ed un proprio peso. E’ anche molto simile all’esperienza del minimalismo in cui l’ascoltatore può decidere, può posizionarsi liberamente all’interno della musica e della trama ritmica. Ci sto lavorando ora soprattutto qui a Copenhagen, non vedo l’ora di portarla ai ragazzi e proporla. Penso che possa essere uno sviluppo interessante. Fa un pò l’occhiolino al minimalismo, a Steve Reich.
Nello stile di Sguera traspare una forte connotazione ritmica, in alcuni punti fortemente influenzata dalle strutture ripetitive di Steve Reich, oppure dall’intricatezza ritmica di maestri del jazz come Thelonious Monk. Il musicista che ha influenzato di più il suo modo di suonare, insieme a contemporanei come Craig Taborn e Benoit Delbecq, è uno dei giganti riscoperti in questi ultimi decenni, ovvero Andrew Hill. Un pioniere, con uno stile fatto di gruppi sparsi, sezioni ritmiche impazzite di piano, Hill ha ottenuto una reputazione all’altezza del suo nome solo in questi anni, quando una nuova generazione di pianisti ha giustamente pagato tributo all’importanza che ha ricoperto. Questo ha anche portato alla riscoperta dei capolavori del periodo Blue Note degli anni ’60, come Point of Departure del 1964, oppure l’incendiario Compulsion!!!!! del 1967, dove Hill ha aggiunto al suo stile frammentato un livello impressionante di complessità ritmica -grazie all’aggiunta di due percussionisti nel nonetto. In maniera interessante, l’influenza delle percussioni lo fa suonare molto vicino ad AKA. Lui è stato per me forse il primo pianista che mi ha davvero aperto una via -rivela Sguera, a cui mi son sentito più vicino in qualche modo, perchè ritrovavo un approccio simile a quello che stavo sviluppando sul pianoforte.
Anche Benoit Delbecq ha rivestito un ruolo importante nella maturazione del suo modo di suonare: facendo lezione con lui ho scoperto che aveva fatto un tipo di ricerca vicino a quella che stavo facendo io. Contemporaneamente studiavo Fanfare di Ligeti, che a sua volta mi ha portato ad approfondire la musica del pigmei AKA, una popolazione del centro Africa. Delbecq ha mostrato interesse per l’anima percussiva del pianoforte, facendo spesso utilizzo del piano preparato nei suoi lavori. Va notato che uno di questi lavori, The Sixth Jump pubblicato nel 2010 a nome del suo trio, ha una traccia nominata AKA. Ed anche il pianista classico Pierre-Laurent Aimard ha fatto ricerca nelle intersezioni con la musica Africana, questa volta in congiunzione con quella di Ligeti e Reich, nel suo lavoro African Rhythms. Tutte queste influenze poggiano sul fondo della memoria dello stile di Sguera: mentre scrivevo i pezzi di AKA cominciavo a scrivere la tesi triennale a Siena jazz che si intitola ‘La ricerca di una temporalità non mentronomica nell’improvvisazione jazzistica’. Per cui ascoltavo e analizzavo Ornette Coleman, Anthony Braxton, Cecil Taylor, Andrew Hill, fino ad arrivare anche al jazz contemporaneo che analizzavo dal punto di vista compositivo, come Craig Taborn, Philip Gropper e Benoit Delbecq.
Esplorare la profondità della musica senza prendere percorsi scontati, alternando improvvise folate di luce e oscurità, questo è lo spirito del quartetto. Questo suono denso e scuro da una parte è il suono naturale del gruppo -conferma Sguera. Quello che è successo sin dall’inizio è stato ritrovare questo suono. Io, in qualche modo, con le composizioni che ho scritto per questo gruppo, ho cercato di servirlo. Non saprei dire da cosa deriva: probabilmente la densità viene molto dal modo di suonare di Carmine, il batterista. Questo suono è proprio il motivo per cui ho scelto di tenere insieme questo gruppo. E’ stato come l’essere stato folgorato alla prima prova del gruppo da questo suono chiaro, nel senso di definito. Mi ci sono confrontato ogni volta scrivendo, è stata una costante. Ora stiamo cercando di evolverlo. Sia in Go, dove si alternano improvvise folate di energia con momenti più riflessivi, o nelle brevi improvvisazioni ispirate alle Vexations di Satie, la densità è esplorata con la stessa acutezza, sia che si stiano seguendo percorsi di improvvisazione o di scrittura. Questo equilibrio è confermato dalle parole del pianista: la scelta che ho fatto, di includere delle improvvisazioni completamente libere, è stata dettata in qualche modo dall’aver trovato questa dialettica in registrazioni che non sono composizioni, ma improvvisazione. Quindi, ho deciso di tenere quelle parti di improvvisazione, di ritagliare quello che è stato un flusso continuo di un’ora in studio, di tenere quelle cose che sembravano più composte.
Lo spirito, che ha guidato più la musica del disco ed ancora adesso mi muove e ritrovo nella musica che ascolto, è quello di una tensione fra quello che è ordinato, gerarchie, geometrie, architetture di una composizione e, invece, il lato più caotico, imprevedibile, destrutturato. Attraverso un equilibrio tra molteplici influenze, tra elementi opposti, e facendosi ispirare da in maniera consapevole, il quartetto di Luca Sguera mostra una visione forte e precisa dietro la musica di AKA.
Luca Sguera
AKA
01 (h)opening
02 Go
03 Vxatio.ns
04 Breathe
05 And We Found Ourselves Talking Machine Language
06 Feldman
07 Vexations
08 AKA
09 No Stars
Luca Sguera piano, vocals on #6
Francesco Panconesi tenor saxophone
Alessandro Mazzieri electric bass Carmine Casciello drums
Dan Kinzelman vocals #6
Recording Data
Produced by Luca Sguera and Dan Kinzelman
Executive Producer: Marco Valente
Recorded at Siena Jazz – Italy
Engineer: Dan Kinzelman