Joseph Branciforte & Theo Bleckmann – LP1 [greyfade, 2019]
Intervista con Joseph Branciforte – Maggio 2019
Attraverso una specie di percorso nascosto, Joseph Branciforte e Theo Blackman esplorano molti temi che affiorano dietro i suoni di LP1. Sotto la materia silenziosa, spesso cullante, che compone i soundscape che si dipanano in quattro tracce, c’è un indizio che si rifà a qualcos’altro, dall’interazione tra uomo e macchina al ruolo della narratività nella musica improvvisata, alla linea sfumata tra partitura e improvvisazione. Tutti questi elementi compaiono fanno capolino in maniera naturale. E tuttavia ce n’è un altro. Sia Branciforte che Bleckmann hanno in comune l’essere artisti che hanno navigato molteplici stili e esperienze. Ciononostante riescono a individuare una zona franca nella quale operare che è pressoché unica. Le parole di Bleckmann che, raccontando di come ha sviluppato il suo proprio stile nella serie di libri di John Zorn, Arcana III, segnano un parallelo interessante: invece di inseguire uno stile che mi caratterizzasse (sopratutto imitando in maniera sempre più ostentato altri stili), volevo liberarmi da una certa imitazione per quanto più potessi, per arrivare ad un momento in cui fossi stato come una tela vuota. Senza prendere una posizione neutrale o super partes, cercavo di affrontare ogni pezzo senza un bagaglio stilistico o vocale predefinito, ma anzi cercando l’espressività e la mia voce personale. E’ un equilibrio delicato tra lo Zen e il Rock and Roll, tra il dare il giusto spazio alla musica e riconoscere il ruolo di noi stessi. Come se fosse una tela vuota, LP1 disegna uno spazio di interazione che è anche uno spazio dove ognuno dei due musicisti ascolta l’altro, prima ancora di riconoscere il ruolo di se stesso.
LP1 è il disco d’inaugurazione della greyfade, l’etichetta appena fondata da Joseph Branciforte. Una carriera come recording engineer, compositore, multistrumentalista e sound artist, Branciforte ha già visto il music business da diverse sfaccettature, che arricchisce ora il ruolo di produttore. Penso all’etichetta come a un’estensione rispetto a dove sono stato negli ultimi vent’anni su per giù, cioè quando ho incominciato la mia carriera di musicista, suonando la batteria da ragazzo e il piano -dice. Ho preso lezioni di piano da teenager per imparare a scrivere la mia musica. Con gli anni, poi, ho studiato composizione al college, poi produzione e registrazione. Quindi, ho imparato a scrivere software, a comporre attraverso strumenti elettronici. Penso che la produzione sia un’estensione di un preciso senso della musica e dell’esperienza della musica, prima come esecutore e batterista, poi in maniera graduale sempre più focalizzato con altri aspetti dell’esperienza musicale. Il suo nome appare spesso legato ad esperienze tra loro differenti, come l’essere recording engineer e produttore per il chitarrista Ben Monder -soprattutto nella produzione di uno degli album più importanti degli ultimi dieci anni, Hydra del 2013; oppure sviluppando software per la creazione di partiture in tempo reale per piccoli ensembles; suonando la batteria per la band avant prog The Cellar and the Point; scrivendo saggi sull’interazione tra uomo e macchina nella musica contemporanea -si veda questa serie su NewMusicBox. E ha collaborato in veste di sound artist con artisti come Ryuichi Sakamoto e Taylor Deupree. La neonata greyfade è un tassello del puzzle che contraddistingue il suo mondo musicale, un posto dove includere in una tutte le precedenti esperienze: penso all’etichetta come a un’estensione naturale, qualcosa che volevo fare da quattro o cinque anni già. Ho sentito che sarebbe stata carica di tutte le cose che amavo, che potesse mettere insieme i miei interessi, inclusa la composizione, la performance, l’improvvisazione, il software design, la registrazione, la fabbricazione, il packaging, scrivere le note, la filosofia, tutte cose che fanno parte di un’etichetta. Persino imparare a proposito della distribuzione. L’ho visto come un processo naturale di sviluppo verso un’area alla quale ero interessato. Voglio che sia qualcosa a lungo termine per tutte le cose a cui sono interessato, e credo che sia una cosa abbastanza unica.
Nato in Germania, Theo Bleckmann è oggi uno degli artisti più importanti nella scena newyorchese. La citazione iniziale è un perfetto punto di partenza per capire le molteplici facce di un musicista capace di sviluppare un bagaglio impressionante di suoni attraverso l’uso della voce. Dalle collaborazioni con il batterista John Hollenbeck e con il già citato Ben Monder alla re-interpretazione delle canzoni di Kate Bush, alle esecuzioni di pezzi di David Lang, Michael Gordon e Julia Wolfe, fino ad arrivare alle esperienze con Meredith Monk e al suo ultimo album da solista, uscito nel 2017 per ECM e intitolato Elegy, il cantante ha sviluppato una maestria unico, un marchio indistinguibile che applica ad ogni suo lavoro. Tutto questo grazie ad una voce dotata di una ricchezza di armoniche ineguagliabile, che emerge con eguale forza sia che stia pennellando una delicata versione di Comedy Tonight di Stephen Sondheim oppure stia emettendo suoni aggressivi in una clima più free. In un momento in cui Bleckmann era un artista già conosciuto nella scena newyorchese, ha incontrato Branciforte nel 2013 durante le sessioni di Hydra di Monder. Seguo quello che fa Theo da quando ho 15 o 16 anni -dice Branciforte. Lo conosco da quando sono un ragazzo, attraverso i dischi di Ben come Excavation e Oceana. L’ho conosciuto professionalmente quando abbiamo lavorato insieme per Hydra. Theo ha fatto molte cose su quel lavoro. E’ stato un momento di svolta per me a più livelli. L’album di Monder ha segnato un punto di svolta per la futura collaborazione tra Branciforte e Bleckmann, ma è anche stato decisivo per il primo, che in quell’occasione vestiva sia i panni del recording engineer che del produttore. Avevamo chiacchierato con Ben dei suoi lavori precedenti, era diventato suo amico. Avevo anche preso delle lezioni di composizione da Ben quando ero più giovane. Così, quando gli ho chiesto a proposito del suo prossimo album, lui mi ha parlato del progetto, che sarebbe stato un album molto complicato. Mi sono offerto di dargli una mano e tutto il resto è storia. Ha avuto bisogno di circa due-tre anni. E’ stato molto impegnativo dal punto di vista musicale. Ben è perfezionista, come lo sono io d’altronde. Abbiamo passato un sacco di tempo in studio per l’editing ed il missaggio. Attraverso quel tempo trascorso, ho conosciuto meglio Theo, perchè ha lavorato tantissimo sull’album. Non penso Theo sapesse che ero anche un musicista, penso credesse fossi solo un ingegnere del suono. La storia, però, assume un’inaspettata svolta quando i due si rincontrano qualche anno dopo. Ci siamo rincontrati due anni fa. E’ capitato, strano lo so, a un matrimonio di amici. Eravamo allo stesso tavolo. Penso che Theo dopo si sia imbatutto in qualcosa che avevo fatto per un pò di tempo e messo online. E’ una specio di diario sonoro, è stato un esercizio importante per me. Questo diario sonoro che Branciforte ha postato sulla sua pagina Soundcloud è stato un esercizio preparatorio in vista della collaborazione da più punti di vista. Ha aiutato me ad uscire fuori dal perfezionismo e provare a creare qualcosa ogni giorno, anche se era qualcosa di non definitivo. E’ stato davvero difficile, perchè non faccio le cose così di solito. Mi piacciono le cose perfette, dove ho impiegato molto tempo, ho levigato i dettagli, dove tutto è pensato con la massima attenzione. E’ qualcosa che ho provato a fare per uscire da questa condizione. Comunque, alla fine Theo ha ascoltato quei pezzi e gli sono piaciuti molto. Mi ha ricontattato chiedendomi di suonare insieme.
La voce aggiunge un elemento narrativo che è atipico per la ambient music. La maggior parte dell’ambient è più focalizzata a creare una sensazione o un paesaggio sonoro.
Bleckmann non è nuovo a derive ambient, anche se il suo nome è più spesso accostato al jazz o alla musica contemporanea. In passato ha anche suonato in solo dal vivo, estendendo la voce con loop machines e delay. L’atmosfera liquida all’inizio di 6.15, con i bassi tellurici che battono sullo sfondo mentre una specie di sonar porta il ritmo lento, è accresciuta dai sospiri del cantante. A 1.52 minuti la voce diventa ancora più chiara rispetto al tappeto minimalista, eppure senza alcuna melodia chiaramente udibile. I due sembrano concentrarsi sull’integrarsi a vicenda da un punto di vista organico, piuttosto che riversarsi sul loro ego e suonare sull’altro. Anche quando Bleckmann sposta il suo coro artificialmente armonizzato di voci di un semitono in alto, a 2.30 minuti per la prima volta, è pressoché impossibile distinguere chi dei due sta producendo quale parte del flusso sonoro. Abbiamo deciso di fare alcuni show nel 2017 e forse due-tre performance -dice Branciforte. Non abbiamo parlato molto di ciò che sarebbe successo, abbiamo solo improvvisato. Veramente, nessuna preparazione. E’ stato tutto molto organico. Questa interazione organica tra i due chiaramente permea tutto il lavoro. Quando si sono ritrovati per suonare insieme nel 2018, hanno registrato il materiale che avrebbe poi composto LP1: avevamo fatto due belle performances che ci erano piaciute molto. Quando, attraverso una strana piega degli eventi, siamo finiti a suonare con Ryuichi Sakamoto, il compositore e sound artist giapponese. La performance c’è stata circa un anno fa. In preparazione di quell’evento, abbiamo pensato di provare un po’ e arrivare preparati. Ho pensato che, siccome tanto avremmo provato comunque in studio, di registrare e vedere quello che ne veniva fuori. Le sessioni hanno seguito le regole iniziali alla lettera, ovvero un approccio totalmente improvvisato, senza portare alcun materiale precedente che conoscessero già. Abbiamo passato due giorni al mio studio di Brooklyn e ho semplicemente lasciato il registratore acceso mentre improvvisavamo per tre-quattro ore al giorno. Dopo il concerto, ho avuto un po’ di tempo per riascoltare le registrazioni. Ho iniziato a cercare quelle cose che pensavo fossero state interessanti. Ho pensato ci fosse un album. Questo è com’è andata e mi ci è voluto molto tempo per ascoltarmi il materiale e trovare frammenti che potessero avere una forma che mi andava a genio. Ho fatto alcune sovraincisioni, ma niente di che, solo per completare il lavoro.
Anche se le sessioni in totale avevano prodotto materiale per ore, al momento dell’editing Branciforte ha ristretto il tutto a 38 minuti, in quattro tracce, all’incirca l’una della stessa durata delle altre. La scelta non è stata affatto casuale, anzi ha contribuito a rinforzare la già minimalistica atmosfera, con un approccio minimalista di ridurre all’essenziale gli elementi presenti. Racconta più nel dettaglio com’è avvenuta la scelta: mi piace provare a ridurre le cose alla loro forma essenziale. Non è un problema quello che sto facendo: se c’è qualcosa che suona estraneo, allora provo a rimuoverlo. Penso si possa dire che si tratti di influenza del minimalismo, voglio solo l’essenziale. Quello che mi toglie così tanto tempo quando scrivo musica o suono qualcosa è il tempo della produzione e registrazione. Lo passo tutto a limare il possibile. Questo album, forse, avrebbe potuto essere più lungo, ma ho avuto la sensazione che fosse giusto avere solo quegli elementi unici o che si muovessero verso qualcosa di unico. C’è cosi’ tanta musica in giro oggi, siamo tutti esposti a tutta questa arte e questa musica, che la mia sensazione è meglio non pubblicare qualcosa, a meno che non sia veramente l’essenziale. Lo so che sono piuttosto rigido con questa regola, ma non voglio togliere nulla. In maniera interessante, il lavoro di editing è stato in qualche modo incanalato dalla scelta del medium sul quale pubblicare l’album; scegliere un formato da meno di quaranta minuti è, quindi, stata una scelta propizia per la pubblicazione in vinile. Il medium ha un peso nella scelta compositiva. Così come oggi abbiamo Instagram e un mucchio di musicisti fa queste clip da un minuto. Anche io, in una certa maniera ho utilizzato il medium come uno strumento compositivo. Ha aiutato a dare una forma a tutto nella mia mente, a sapere che avevo solo questi centimetri di tela a disposizione. Una volta che avevamo deciso che sarebbe stato pubblicato in vinile, ho avuto più chiaro che album sarebbe stato. Tutte le cose che avevo provato in precedenza, come album più brevi, ho capito che era più importante essere concentrati su ogni elemento che esagerare. Preferisco ridurre qualcosa alla sua forma più nuda, anche se questo significa accorciare.
Penso che serva un equilibrio tra forme forti, sviluppo e visione, equilibrio che deve rimanere nell’espressione spontanea. Entrambi questi aspetti devono essere equilibrati per me in veste di ascoltatore.
Una trama ben precisa emerge dai droni e dai battiti liquidi della musica. L’atmosfera non è statica, ma ha anzi un senso di direzione ben preciso, che si dipana man mano nelle tracce. La voce aggiunge un elemento narrativo che è atipico per la ambient music. La maggior parte dell’ambient è più focalizzata a creare una sensazione o un paesaggio sonoro. La seconda traccia 3.4.26 inizia dove l’altra aveva finito, in una foresta di suoni scintillanti guidati da un loop di voci appena riconoscibili. Branciforte rafforza questo coro in maniera lenta, creando un’onda minimale di suono che va a unirsi con il precedente loop. Theo ha un approccio più libero. E’ più focalizzato sul momento, mentre io, invece, penso di essere più concentrato sul concetto dietro alla musica. Aveva un’idea precisa prima di cominciare. In una certa maniera, i pezzi che ho selezionato esprimono più la mia estetica piuttosto che quella di Theo, esprimono più il senso di minimalismo che volevo raggiungere. Laddore i due operano nel momento, esplorando le possibilità di impercettibili cambi all’interno delle loro performance improvvisative, c’è una tensione creativa tra le diverse visioni alla base dell’uno o l’altro. Branciforte spiega più nel dettaglio: la voce ha molte possibilità di associazioni e di essere connessa con un elemento narrativo. Mi sembra che questo crei una specie di contrasto con il mio senso più minimalista di vedere le cose. Theo, invece, è più focalizzato sull’elemento narrativo e improvvisativo, l’essere in quel preciso momento. Nel lavoro ci sono entrambi gli elementi, sia quello concettuale, pianificato, che quello improvvisativo. Lo trovo interessante. E’ veramente la prima volta che faccio qualcosa di completamente improvvisato. E, nonostante questo, ho voluto che in qualche modo fosse concettuale. C’è questa sorta di linguaggio che condividiamo io e Theo, un linguaggio fatto di intuizione. Ciononostante mettiamo in mostra aspetti diversi di questo linguaggio nell’album.
Spostandoci a 4.19, la terza traccia dell’album, rumori prodotti e filtrati dalla voce sembrano emergere, in maniera man mano più chiara rispetto ai pezzi precedenti, sopra il tessuto nebuloso e opalescente della materia prodotta da Branciforte. Non c’è alcun senso di fretta. I rintocchi casuali delle campane creano un ritmo preciso e continuo che richiama i paesaggi minimalisti di un Taylor Deupree, che fra l’altro è anche un amico di Branciforte, o di una specie di malinconia norvegese che sembra uscita dal duo Jan Bang/Arve Henriksen. Volevo che fosse una composizione unica quest’album -dice Branciforte, qualcosa a cui stavo pensando. Di vendere una storia all’ascoltatore e portarlo in un viaggio ben preciso. Creare un senso di sviluppo coerente piuttosto che creare solo qualcosa che mettere in mostra le capacità del duo, questo è stato l’obiettivo delle selezioni delle tracce: c’era due o tre pezzi in particolare che potevano starci bene, ma non sono riuscito ad inserirli nell’ordine dell’album. E’ una cosa veramente importante per me, l’ordine in cui i pezzi si sviluppano all’interno della composizione. C’era un’altro pezzo in particolare che alla fine non sono riuscito a inserire, anche se era un grande pezzo. Proprio per il fatto che non aveva senso all’interno della sequenza del brani, non l’ho inserito. Qualche volta è un pò come se dovessi uccidere un figlio, ma devi togliere quello a cui tieni di più per salvaguardare il tutto.
Nella sua veste di compositore Branciforte ha sviluppato un software per lo sviluppo di partiture in tempo reale, ovvero create dal vivo sul palco. Come ha raccontato nella già citata serie di NewMusicBox, una delle più interessanti opportunità è stata creare un livello di interazione tra compositore e musicisti: portare il compositore sul palco ha le sue conseguenza. E’ una cosa che ancora non comprendo a fondo, ma è affascinante. Ci sono state alcune volte in cui ero sul palco e interagivo con i musicisti e si crea una dinamica sociale carica di tensione. I musicisti non sono abituati ad avere il compositore in quel ruolo. Rendendo più sfumati i confini tra i ruoli, in una relazione così forte come quella tra compositore ed esecutore, non è facile. Un esempio che credo di aver citato nella serie di NewMusicBox è che avevo creato una specie di controller MIDI, con faders che mi permettevano di indicare ai musicisti le dinamiche sulla partitura. Mi ricordo che c’era un’atmosfera di risentimento, una cosa inaspettata. Ma ho capito che anche gli stessi musicisti erano parte dell’algoritmo, non stavano semplicemente tra il pubblico, c’era una dinamica sociale. Qualcosa che si viene a creare in questa relazione tra compositore ed esecutore che è sempre stata l’opposto. Invece questa convenzione astratta della partitura, in questo contesto in cui il compositore è a due metri di distanza, cambia completamente. C’è una lunga storia dietro la crisi di questa dinamica sociale, e molti gruppi improvvisativi hanno giocato un ruolo nel metterla in crisi in maniera creativa. Vale la pena citare le esperienze di gruppi che si sono collocati ai margini della musica contemporanea come il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza; un altro esempio viene da Derek Bailey, quando spesso raccontava le difficoltà nel coinvolgere musicista con un background accademico nel contesto dell’improvvisazione totale, a causa della loro incapacità di calarsi nel ruolo di improvvisatori e uscire della loro comfort zone.
Mi piace provare a ridurre le cose alla loro forma essenziale. Non è un problema di quello che sto facendo: se c’è qualcosa che suona estraneo, allora provo a rimuoverlo.
Un’altra questione importante è come questa sfida compositiva, questo background di Branciforte, abbia interagito con il suo lavoro in veste di improvvisatore. In altre parole, c’è alcun legame tra quello che il compositore scrive nella partitura live che i musicisti suoneranno dal vivo rispetto all’improvvisazione del sound artist? E’ un aspetto che Branciforte interpreta con le seguenti parole: sono molto interessato alla forma e sono interessato alle forme musicali, direi. In una qualche maniera ho avuto nella mia vita reazioni altalenanti all’improvvisazione totale e al free jazz. Mi piacciono alcune cose e altre meno. Penso che serva un equilibrio tra forme forti, sviluppo e visione, equilibrio che deve rimanere nell’espressione spontanea. Entrambi questi aspetti devono essere equilibrati per me in veste di ascoltatore. Con la notazione dal vivo si viene a creare una difficoltà simile, perché bisogna avere qualcosa create sul momento e che abbia un senso di libertà e di scoperta, ma che sia allo stesso tempo basato su un concetto e un background forte. Se non carichi di narratività, questi elementi formali devono essere forti per garantire una connessione all’interno del materiale. Questo è quello che per me è la coerenza.
La macchina gioca un ruolo accrescendo come una protesi, nel antropologico del termine, l’abilità del compositore di improvvisare con i musicisti. Nonostante questo l’utilizzo di supporti automatici alla scrittura della partitura è ancora visto di cattivo occhio. Molte cose a cui sono interessato dal punto di vista formale, armonico nella mia musica alla fine potrebbe farle anche una macchina. Non sento di perdere alcuna soggettività nella mia espressione. In realtà credo di poter gestire queste cose scrivendo codice per software e questo codice esprimerà la mia soggettività. Ho studiato musica elettronica all’università. Non si trattava di scrivere per strumenti acustici, ma mi è stato utile per abituarmi ai tipi di processo che avvengono in quel paradigma. Quando penso a scrivere per strumenti acustici, molte tecniche mi tornano in mente. Non le ho mai utilizzate veramente prima di iniziare a lavorare alla maniera in cui combinare l’approccio digitale/algoritmico con la strumentazione acustica convenzionale. Dal punto di vista del compositore, utilizzare gli algoritmi durante il processo compositivo, cosa che ho discusso di recente anche con il compositore Markus Reuter, è una maniera per esplorare nuovi orizzonti, nuove soluzioni. Ho scritto un quartetto d’archi costituito da una serie di permutazioni. Il pezzo è diventato gigantesco, una sorta di raffigurazione di tutti gli accordi che volevo potessero comparire. Se l’avessi scritto in partitura tradizionale, ogni volta che avessi cambiato qualcosa, anche solo l’ordine, m’avrebbe richiesto dei giorni, se non settimane. Con il paradigma algoritmico posso velocemente ordinarli in quindici maniere diverse e elaborarli così. Posso buttare i file MIDI nella mia macchina e ascoltarli mentre vado in giro. Potrebbero volerci mesi, se l’avessi fatto in maniera convenzionale. Stravolgo le cose così velocemente che potrei anche non ritornare al punto di partenza. Mi piace questa velocità.
La traccia finale è il punto focale dell’intero lavoro. 5.5.9 inizia su un tappeto di accordi dal tono cupo e meditabondo; intorno ai 2.00 minuti il pezzo genera una progressione di accordi discendenti in moto parallelo. Questo pattern rimarrà in loop per il resto della traccia, come una spirale che si inabissa. Quando abbiamo registrato quel pezzo mi ricordo che c’era questa cosa che iniziava intorno ai due minuti, dove suonavo questi tre accordi discendenti. Ricordo la sensazione quando li ho suonati. Stavamo improvvisando e mi sono usciti. Ho subito capito che stavo facendo la cosa giusta. E’ stata una sensazione del tipo ‘sono stato già in questo posto’. Una sensazione veramente strana. Non ho ascoltato la registrazione fino a un mese dopo. Ma ricordo che sono andato a cercarmi quel pezzo, volevo trovarlo perché fosse una cosa grandiosa. Ho capito che sarebbe stato la parte finale della registrazione, era una delle cose che avevo in mente dall’inizio. Sapevo che avrebbe ricoperto un ruolo centrale nella sequenza. Mi sono messo alla ricerca della prima, della seconda e della terza traccia tra il materiale registrato, ma già sapevo quale sarebbe stata l’ultima. Quando, intorno ai tre minuti la voce di Theo Bleckmann entra in scena, canta quella che è probabilmente l’unica melodia dell’album, un’unica e meravigliosa melodia. Quando ho suonato quegli accordi ho capito quello che lui avrebbe aggiunto sopra, abbiamo capito immediatamente cosa fare. E’ uno di quei momenti, in otto ore di registrazione ti capitano un paio di momenti del genere, in cui qualcosa del genere accade. E’ stato veramente uno di quei momenti e volevo assolutamente aggiungerlo all’album. Una serie di scelte compositive si sono rivelate piuttosto rischiose al momento dell’editing delle improvvisazioni. Si tratta di decidere dove concludere il pezzo. Quello, ad esempio, era parte di un’improvvisazione molto più grande che durava una cosa come quaranta minuti. Non so neanche se fosse la parte finale dell’improvvisazione, forse andava ancora avanti. Comunque, si è trattato di decidere dove iniziare e finire a tagliare, c’è voluto molto tempo. Tutto diventa chiaro, il concept, la vision dei due musicisti messa a nudo, un puro senso di bellezza. E’ un pezzo veramente scuro. Ha questa discesa in una sensazione ambigua a concludere l’album. Va in questo orizzonte, senza risolversi in alcun posto. Ho avuto la sensazione che fosse un momento molto privato e personale che volessi mettere in luce nella parte conclusiva. L’intero lavoro si muove attraverso una specie di arco emozionale che diventa chiaro solo verso il tramonto dell’album, con la chiusura dell’ultima traccia. Volevo che fosse qualcosa di caldo nel mezzo dell’album, che avesse ricchezza, bellezza, e che la traccia finale, invece, discendesse in uno spazio più scuro, che portasse l’ascoltatore in territori più vasti. Quello che penso della forma è che il primo e l’ultimo pezzo funzionano da segnali, sono in un certo senso così scuri, con più sonorità elettroniche, mentre la parte centrale ha un tono più caldo. C’è una specie di simmetria. E’ questo l’arco del lavoro, questa specie di simmetria.
Molte cose a cui sono interessato dal punto di vista formale, armonico nella mia musica alla fine potrebbe farle anche una macchina. Non sento di perdere alcuna soggettività nella mia espressione. In realtà credo di poter gestire queste cose scrivendo codice per software e questo codice esprimerà la mia soggettività
La greyfade, la neonata etichetta fondata da Branciforte che viene inaugurata proprio con questo duo, ha l’obiettivo di produrre album con ‘la più alta qualità dal punto di vista concettuale, creativo e sonoro’. La cartina di tornasole di questo manifesto è evidente quando si mettono le cuffie per l’ascolto dei file ad alta risoluzione (96khz/24bit) e si assaporano i primi droni dell’album. Quando pensavo a questa etichetta, una delle prime cose che più mi davano frustrazione come ingegnere del suono e produttore era quanto tempo gli artisti ci spendevano. Per me il livello di ossessione che affronto con il suono è piuttosto estremo e spendo molto tempo a pensare tutto quanto, ascoltando la musica su più sistemi di ascolto, mettendoci molto di me E’ veramente frustrante quando, dopo tutto lo sforzo, si sente come esce la musica attraverso le piattaforme streaming. Riduce la qualità a un livello tale che è impossibile riconoscere il missaggio. Le frequenze rispondono in una maniera così differente da quello che avevo pianificato che mi sembra le persone non ascoltino niente di quello che avevo in mente. Penso probabilmente di combattere una battaglia contro i mulini a vento. Sto tentato di mettere l’attenzione sulla qualità della risoluzione perché penso che molti non sappiano quello che si perdono. Dopo questa uscita, la greyfade continuerà a esplorare le connessione tra le pratiche elettroniche. Il prossimo lavoro sarà con il compositore elettronico Kenneth Kirschner, un musicista che ha lavorato con Taylor Deupree sulla 12k. Ci siamo incontrati attraverso lui. Ken è un personaggio molto interessante. E’ molto interessato nella musica minimale da camera, ma non un compositore nel senso tradizionale del termine. E’ prettamente un musicista elettronico. Per questo album abbiamo deciso di avere opere acustiche da camera, composte attraverso la tecnologia digitale. Ci sarà un pezzo di Ken che ho trascritto per due violoncelli e il piano. Il mio pezzo l’abbiamo è un’opera proceduralista generativa che esplora diverse permutazioni armoniche per quartetto d’archi. Sarà l’inizio di una serie di lavori che esploreranno la parte algoritmica e generativa della musica per strumenti acustici.
Portare il compositore sul palco ha le sue conseguenze che non riesco completamente ad afferrare, ma è una cosa davvero affascinante.
LP1 è un’esplorazione dell’interazione organica che si viene a creare tra voce e dispositivo elettronico. Ma quello che è realmente più sorprendente è come Joseph Branciforte e Theo Bleckmann usano i loro strumenti, organici e elettronici, per accrescere il loro livello di interazione, facendo in modo di nascondere anche le più piccole sfumature tra le note dell’uno e dell’altro, tanto che non è possibile ascoltarli se non come un unicum.
Joseph Branciforte & Theo Bleckmann
LP1
- 6.15
- 3.4.26
- 4.19
- 5.5.9
Theo Bleckmann: voice & electronics
Joseph Branciforte: modular synthesizer, fender rhodes tape loops, & processing
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