Paul Klee ci insegna la potenza della deduzione, a poter trarre , partendo da un unico soggetto, conseguenze molteplici, che proliferano. È assolutamente insufficiente appagarsi di un’unica soluzione, bisogna ottenere una cascata, un albero di conseguenze (Pierre Boulez, Il Paese Fertile)
Ritrovarsi in una deliziosa giornata di gennaio davanti ad un caffè, in una delle poche zone inaspettatamente tranquille di Roma, a chiacchierare con Francesco Diodati, e scordarsi che il chitarrista romano sta per pubblicare un nuovo album. Perché non ci si accorge del tempo che passa, mentre la conversazione va da Pierre Boulez a Steve Coleman, passando dall’arte contemporanea, alla deduzione nella ricerca scientifica e a cosa significa il termine “giovane”. E ci si dimentica il motivo dell’incontro mentre la conversazione scorre piacevole. Così è andata: ci siamo ritrovati a parlare della musica nel suo ultimo album, pubblicato sotto il nome di Francesco Diodati Yellow Squeeds e intitolato Never the Same, anche quando apparentemente non se stavamo parlando. Un filo rosso ha attraversato tutta la chiacchierata, soprattutto quando siamo arrivati a parlare del documentario dedicato al CERN, il mega laboratorio di fisica di Ginevra, intitolato Il Senso della Bellezza. Un documentario in cui si parla di scienza, ma anche di come la scienza potrebbe andare di pari passo con la bellezza intuitiva dell’arte. Diodati sintetizza perfettamente questo connubbio ideale con le parole: le formule che funzionano sono le formule belle. Le formule e la ricerca possono avere una loro un loro valore artistico, questo é quello che Francesco Diodati e la sua musica dicono.
Uno dei chitarristi più esperti sulla scena jazz italiana, con più di dieci anni di esperienza, Francesco Diodati si é guadagnato una reputazione sia grazie alle sue collaborazioni che ad una serie di album a suo nome caratterizzati da una forte vena esplorativa. Con il trombettista Enrico Rava ha pubblicato un album con ECM dopo essere entrato nel suo quartetto nel 2013 e esserne tuttora membro. Ha anche collaborato con il batterista Bobby Previte – da ricordare un interessante equilibrio tra post-rock e jazz nell’album Plutino registrato insieme al batterista americano e al sassofonista Beppe Scardino. Eppoi con un altro batterista d’avanguardia come Jim Black, con il trombettista Paolo Fresu e con il trombonista Gianluca Petrella, tra gli altri. La sua chitarra si esprime con suoni clean, ma anche grezzi, spesso con feedback e un uso pensato dell’effettistica, con arpeggi post-rock insieme a intrecci di melodie dal sapore monkiano. Tutto questo gli ha garantito la nomina, per molti anni consecutivi, come miglior chitarrista da parte dei lettori del magazine Jazzit. Ora pubblica il secondo album insieme agli Yellow Squeeds, di cui è il principale compositore. Tutti e due gli album sono stati pubblicati dall’etichetta pugliese Auand. Un quintetto, ma non propriamente un quintetto nel senso comune del termine, con il trombettista Francesco Lento, Enrico Zanisi al pianoforte e tastiere e Enrico Morello – anche lui nel quartetto di Enrico Rava – alla batteria. La line-up è senza basso e ruota attorno alla tuba di Glauco Benedetti: ho conosciuto Glauco mentre facevamo un disco con Ada Montellanico dove c’’era lui alla tuba. Poi ho ascoltato a New York dei gruppi con il sousafono. È lì che m’é m’é piaciuta la tuba, uno strumento capace di creare un suono totalmente diverso, che poi ho mischiato con il piano acustico. La cosa che mi piace è avere una strumentazione tale da non potermi appigliare a niente. Non ho un riferimento vero e proprio a cui ispirarmi. Ho magari dei gruppi, come quelli di Henry Threadgill, che ha usato molto la tuba, o Liberty Ellmann. Però non ho preso ispirazione direttamente da loro. Henry Threadgill con le formazioni Very Very Circus e Zooid e le loro tipiche esplosioni improvvise, sono i riferimenti più vicini a Yellow Squeeds; magari anche la formazione di Bill Frisell sul classico Rambler – il chitarrista americano ha profondamente influenzato il modo di suonare di Diodati. E ci sono molte formazioni che stanno riscoprendo il ruolo di questo strumento sulla scena attuale. Vengono in mente i Sons of Kemet di Shabaka Hutchings e Daniel Herskedal. Eppure nessuno è simile: gli Yellow Squeeds mostrano un senso dell’umorismo unico, giocosità, suoni aggressivi mescolati con arrangiamenti raffinati e incursioni poliritmiche.
C’é un tipo di ricerca che sento molto dentro a questo lavoro. Prima di pensare a come fare un pezzo o ideare un certo modo di suonare, per due anni ho studiato la poliritmia per interiorizzarla, finchè non è diventata una cosa che stava dentro le mani. Ricercare ed imparare sono parole ricorrenti quando Diodati parla della sua musica. Sia che si parli di come Pierre Boulez sia stato influenzato dalle parole di Paul Klee a proposito del processo di deduzione o di cosa abbia imparato Francesco suonando in Myanmar -ha viaggiato spesso nel paese come parte del progetto Myanmar meets Europe-, tutto é sempre incentrato sulla musica come momento di apprendimento. Nell’era dell’informazione potrebbe essere facile pensare che l’apprendimento finisca quando si trovano i dati che si cercano; tuttavia manca uno stadio aggiuntivo, che sta nell’interiorizzare ciò che si impara. E’ una cosa ben nota nella formazione: ad esempio nella Conscious Competent Ladder, una scala di apprendimento utilizzata dai formatori, che indica i passaggi per arrivare ad interiorizzare una competenza. Quando apprendiamo una qualunque cosa attraverso aggiunte progressive di informazioni, raggiungeremo uno stadio in cui siamo consapevoli delle competenze che abbiamo appreso. Sappiamo di cosa siamo capaci. Eppure, lo stadio finale sta ancora oltre, nel diventare inconscapevolmente capaci, cioè essere in grado di fare qualcosa senza capire veramente perché possiamo farlo, perché ormai la sappiamo fare talmente bene che ci sembra facile. Francesco Diodati è molto consapevole di ciò che serve per raggiungere questo stadio e di come farlo dal punto di vista di un musicista. Simple Lights, che fa da spartiacque nel mezzo delle nove tracce dell’album, è un esempio perfetto di come questo processo funzioni per lui: un giorno Miles Okazaki mi parlò di poliritmie dinamiche, una cosa che aveva approfondito con Steve Coleman. Io mi sono preso questo appunto e poi per anni l’ho lasciato sepolto. L’ho ripreso nel 2015 mettendo a posto le cose, e mi son messo a studiare per 2 anni per arrivare ad un pezzo sul disco nuovo concepito in quel modo lì. Con estrema consapevolezza Diodati ha reso quell’esempio una fonte generativa per esplorare e creare ciò che poi sarebbe diventato Simple Lights. Stimolando la curiosità, nutrendola con input anche al di fuori della musica, si innesca un approccio moltiplicativo. Qualcosa di simile a quello che ha detto Boulez a proposito di come Paul Klee concepisse la deduzione come un albero di conseguenze. Fin che so dell’esistenza di una cosa e mi metto lì a tavolino a costruire il pezzo –dice il chitarrista, per me non funziona perchè diventa una cosa astratta. C’è stata tutta una prassi di ricerca che poi mi ha portato a concepire una cosa e non una concezione astratta. C’è un qualcosa che mi stimola e cerco di entrarci dentro. E quando c’entro dentro, allora posso iniziare ad espanderla. Forse questa é la ricerca. Trasformazione ed espansione.
Iniziando con una slide guitar dall’andamento serpeggiante e una melodia sinuosa su un ritmo afrobeat, Simple Lights non solo accende l’esecuzione del batterista Enrico Morello, ma spinge allo scoperto anche Benedetti, che tira fuori una linea di tuba rimbalzante, e Lento, che aggiunge preziosi frammenti. Steve Coleman sembra fare l’occhiolino da dietro il sipario in questo brano giocoso, danzante e intenso. Eppure Diodati esplora un modo diverso di costruire le proprie stratificazioni ritmiche rispetto al maestro. Quando Enrico Zanisi aggiunge un pianoforte dal sapore cubano nello strato superiore, il ritmo è contrastato tra binario e ternario e l’ambiguità diventa folle e confusa. Fino a che non si arriva al delizioso duo caraibico tra Lento e Benedetti, per una volta al trombone. Tuttavia non é possibile smettere di ballare, anche se le modulazioni intelligenti si muovono attraverso passaggi cromatici e mantengono uno sviluppo melodico difficilmente prevedibile. Attraverso costanti aggiunte di pattern ritmici, la traccia crea un senso unico di movimento che è divertente e aggressivo allo stesso tempo. Diodati spiega come interagisce con il resto della band: mi piace dare spunti che poi ogni musicista può riutilizzare per partecipare in modo attivo. Non mi piace che un musicista suoni bene la sua parte e basta, è un cosa che mi annoia, che non mi da il senso della musica. Per me la musica è una componente viva. Quindi anche se c’è molta scrittura, deve essere una scrittura finalizzata a metterci qualcosa di proprio. E questa è una cosa a cui tengo molto, in qualsiasi gruppo mio o collettivo o comunque in cui ho possibilità di esprimere un mio modo di pensare la musica.
L’album è stato presentato in anteprima durante un tour che ha attraversato Londra, Milano (durante il festival JAZZMI), Amsterdam (presso la prestigiosa Bimhuis) e Roma in un luogo abituale per la band, ovvero la Casa del Jazz. In queste date, Never the Same ha mostrato come il loro sound sia cresciuto in occasione di questo secondo lavoro. Una connessione più stretta all’interno del quintetto, un senso di interazione più profondo che non lascia il tempo di respirare. Simple Lights è un perfetto esempio di questo work in progress, come spiega Diodati: in quel pezzo c’é tutta un’evoluzione rispetto a questa [dinamica del gruppo]. Ci sono dei ritmi che sappiamo si intersecano, dopodichè il pezzo si evolve, per cui lo spostamento degli accenti su l’uno o l’altro ritmo é come se prendesse quello che c’era prima e lo facesse riemergere in un modo diverso. O come se si rivoltasse un oggetto e si vedesse che c’é una prospettiva diversa, un colore che non si era visto. Per me diventa un momento di ricerca, anche sul campo, nel momento in cui andiamo a suonare questo pezzo dal vivo, perché non sarà mai lo stesso pezzo. Quello che faccio é scrivere per raggiungere questo. Per me l’esecuzione della partitura così com’è non basta.
Voglio arrivare a un punto in cui mi metto a ballare sul palco, un punto in cui non ho paura di dover eseguire un brano in un modo preciso
L’iniziale Here and There è divisa in due parti: la prima si muove attorno a un riff funky che interagisce con una linea ritmica, che ondeggia attraverso pattern ritmici binari e ternari. La tromba di Lento suona un delizioso riff all’unisono con Diodati, con il chitarrista che a volte si mette in disparte con stop e ripartenze che ricordano sia le metriche dispari di Tigran Hamasyan che i riff della band heavy metal Meshuggah. Il chitarrista ha un profondo gusto per le melodie prolugnate e le colloca spesso su lunghe progressioni di accordi e intricati schemi ritmici. Tuttavia rimangono sempre orecchiabili e non perdono mai il senso di sviluppo melodico. Il secondo tema di Here and There parte dopo circa quattro minuti ed è sovrastrutturato come il tema iniziale: mentre nella prima parte, tuba, pianoforte e batteria sembravano in sottofondo, lentamente emergono potenti e intensi con un sound da math rock. Francesco Diodati indica come ha scritto la traccia: la seconda parte é tutta su strati poliritmici. C’é una pulsazione di base e sopra si crea come una nuvola di ritmo, che é come se accelerasse e decelerasse. Se si toglie la pulsazione sotto e si lascia solamente la poliritmia sopra, è come se si stesse su un altro tempo che accelera e decelera. Ci sono poliritmie sia sulla scansione binaria e sia sulla scansione ternaria. Nel momento in cui scrivo le poliritmie in questa maniera, vado ad accentare a gruppi di cinque sedicesimi piuttosto che cinque ottavi. E’ chiaro che se si toglie la pulsazione sotto, sopra rimane una sorta di tempo che rallenta e accelera, anche se in un modo totalmente relazionato ad un’altra pulsazione sottostante. Anche li mi interessa giocare tra queste cose, stare sull’uno o l’altro battito e creare tutta questa ambiguità nel pezzo.
Ci sono accenni al post-rock e all’elettronica contemporanea nelle ritmiche e timbriche della band. Diodati usa suoni ricchi di feedback, o magari aggiunge un pò di fuzz al suo suono pulito, che è spesso molto grezzo in Never the Same: é una cosa verso la quale mi son sempre più diretto negli ultimi anni –dice il chitarrista. Anche nella scelta della chitarra, una Fender Jaguar, con un suono più rude, una chitarra da surf music, dal suono grezzo. E’ un suono molto rischioso, perché nel jazz quel tipo di suono é spesso più caratterizzata da toni chiusi. […] Ad un certo punto ho avuto l’esigenza di togliere tutto e sentire la corda, sentire l’attacco, sentire l’imperfezione. E su quello ripartire. Poi su questo ci metto il fuzz, il delay. Però diventano tutti parte di un suono di base che é invece più terroso. Nondimeno, lo stile di Francesco Diodati è debitore delle lezioni di Jim Hall e Bill Frisell. Quest’ultimo ha uno stile connotato da accordi aperti ed ariosi, ma ispira il modo di suonare del chitarrista romano anche da un altro punto di vista: [Frisell] ha la polifonia, ma ritmicamente é molto interessante. Anche se non è la prima cosa che si pensa, perchè ha questo suono arioso, espanso. Invece ha un’intelligenza ritmica che io trovo fenomenale.
Quando si parla di influenze, il breve interludio Blue Dreams mostra quanto abbia ascoltato e studiato con uno dei chitarristi più sottovalutati in circolazione, ovvero Marc Ducret. Un solo intricato e obliquo sull’acustica, che da un certo punto di vista segna una pausa nella frenesia ritmica dell’album. Anche in questo caso la lezione del maestro viene appresa a un livello più profondo e inconscio, parlando la lingua della formazione, dato che Diodati mostra come piegare lo stile di Ducret al suo modo di suonare con un segno di autenticità. Parlando delle lezioni apprese da Steve Coleman e Marc Ducret – pochi giorni prima della nostra chiacchierata i due si era giusto scambiati alcune mail -, si capisce come funzioni il processo compositivo di Diodati: Marc Ducret si ispira a musica molto diversa, da Lennie Tristano a Stravinsky. […] Mi ricordo una conversazione con Steve Coleman. Ad un certo punto gli ho chiesto come gli fosse venuto in mente un determinato passaggio. Lui mi disse che non aveva fatto altro che prendere la musica di Charle Parker e Thelonius Monk, andarci dentro ed espandere i concetti che erano già nelle loro musiche. Ed in effetti andando ad ascoltare Monk si trova che, anche nei pezzi in quattro quarti, ci sono poliritmie. Anche i temi apparentemente più banali di Monk spesso hanno delle caratteristiche che, provando ad esplicitarle, permettono di scoprire un mondo da poter espandere, come ha fatto Coleman. Marc Ducret fa lo stesso quando prende ispirazione da Stravinsky o Tristano.
Irrational Numbers è il perfetto esempio di questo concetto di espansione. L’intro di piano dal sapore etnico è accompagnata da un contrappunto tonalmente ambiguo della chitarra – anche qui un riferimento a Ducret è evidente. Un pattern ritmico nascosto guida la traccia e la tromba, insieme alla batteria, che aggiunge un nuovo strato. E finalmente quello stesso pattern ritorna dopo qualche battuta, stavolta con una parte delle note originarie. Attraverso un crescendo avvincente, Diodati aggiunge accordi spigolosi e pause al suo solo, giocando con il feedback del suono. Zanisi snocciola linee veloci mentre gli altri viaggiano senza interruzioni attraverso i molteplici livelli di ritmi, come una supernova in espansione pronta ad esplodere. Dopo circa tre minuti e cinquanta secondi, l’intera band è ora in grado di far scoppiare un riff in piena forza nel momento di massima tensione.
Se Irrational Numbers è uno dei momenti più dinamici dell’album, la title track, invece, crea inizialmente uno stato d’animo più quieto. Sostenuta da un accompagnamento del pianoforte di Enrico Zanisi, che svicola attraverso molteplici riferimenti tonali e piazza gli accordi in maniera quasi sparsa dal punto di vista della scansione ritmica, in Never the Same ci ritroviamo in una sorta di stasi dal senso inquietante, che ricorda Pyramid Song dei Radiohead. Francesco Diodati aggiunge la sua chitarra in maniera sporadica, fino all’ingresso ricco di lirismo di Francesco Lento. Il chitarrista racconta di più su Never the Same: ho acceso il registratore, ho suonato e poi mi sono trascritto. L’unica idea alla base era di non preoccuparmi di una particolare metrica o ritmo, semplicemente suonare gli accordi finchè mi piaceva suonarli ed è uscita fuori questa traccia. All’inizio era completamente diversa. E’ stato il pezzo più difficile da registrare in studio, dal vivo ancora non l’abbiamo suonata. Tutta la prima parte, con quell’armonia sotto e noi che improvvisiamo sopra in maniera molto rarefatta, era inizialmente diversa. Era tutto ritmico e scansionato. Però, lo suonavamo e io sentivo che non mi piaceva. Da lì piano piano mi é venuta l’idea, provandola con loro prima della registrazione, di suonarla in questa maniera. Dall’ingresso di un ritmo mutevole dei piatti della batteria, il pattern ritmico diventa più chiaro fino a una pausa intorno circa ai tre minuti. La seconda parte mantiene gli stessi contrasti, ma é stavolta spinta da un assolo ritmicamente intelligente di Enrico Zanisi ai synth, fino ad arrivare alla chiusura affidata ad un tema intricato. In questa versione c’è un tempo, ma non si capisce bene bene. Enrico Zanisi continua a suonare sotto con l’ostinato. E’ bello perchè non c’è un’esplicitazione, ma c’è, invece, questo magma. C’è un flusso ritmico, che si evolve. Il tema finale è venuto dopo, quando mi sono rimesso su quel pezzo. L’avevo composto due anni fa e inizialmente non l’avevo concepito per questo gruppo. Prima del disco, qualche mese prima, l’ho completamente trasformato e l’abbiamo registrato.
C’é un tipo di ricerca che sento molto dentro a questo lavoro. Prima di pensare a come fare un pezzo o ideare un certo modo di suonare, per due anni ho studiato la poliritmia per interiorizzarla, finchè non è diventata una cosa che stava dentro le mani.
Danzante, agile e accattivante, l’intro tuba di Benedetti in Cities (brano originariamente intitolato alla città di Ferrara prima della registrazione) mostra come gli Yellow Squeeds siano riusciti a trovare un equilibrio tra arrangiamenti ironici e intelligenti, come nella melodia dalle tinte funky di Lento. Mi piace avere un organico in cui mi devo inventare un suono di gruppo -dice Diodati. A volte é uno scontro, non é come scrivere per il contrabbasso. Qui ci dobbiamo invece inventare una cosa che funziona con la tuba, che non ha lo stesso attacco. Questo mi affascina, perchè mi porta a scrivere in un modo in cui normalmente non scriverei. E’ ricerca pure questa! Le sezioni ritmiche si trasformano in un garage rock aggressivo, mentre la tromba e la chitarra dialogano gioiosamente. Voglio arrivare a un punto in cui mi metto a ballare sul palco -dice, un punto in cui non ho paura di dover eseguire un brano in un modo preciso. Che come dire é riuscire ogni volta a fare un passo in più per andare verso questa consapevolezza. Deve essere la cosa che desideri fare di più in quel momento. Questo permette anche il non suonare, permette di utilizzare il silenzio. Ultimamente mi capita spesso di farmi da parte, di far suonare il gruppo. Di sentire da fuori e rientrare, anche in modo estremo. Lo facciamo molto con Francesco Lento: certe volte Francesco rientra anche se non é finito il mio solo e magari non é iniziato il suo. Questo mi piace, perchè è un tipo di libertà che è unita ad una profonda consapevolezza.