Nell’era dei social media la distanza tra due individui presi a caso si é accorciata rispetto ai consueti sei gradi di separazione, e qualcosa di simile è accaduto nella musica. La distanza virtuale tra i generi musicali si è ridotta così tanto da consentire agli ascoltatori di saltare con nonchalanche tra generi distanti tra loro ed ai musicisti di attingere ad una varietà impensabile di possibili influenze. Seguendo il flusso di questa mobilità di parole e etichette, chiamare un disco “inclassificabile” potrebbe far storcere il naso. Eppure esistono ancora piacevoli eccezioni che consentono l’uso di questa parola, perché sono album che indicano nuove direzioni in una maniera diversa rispetto al passato. Il primo album solista del batterista jazz Anton Eger Æ è un’eccezione alla regola, un ibrido alieno di diavolerie poliritmiche da virtuoso, synth vintage dall’andatura sinuosa e coraggiose escursioni nel math-rock. A volte vira nei territori dell’IDM o verso una specie di follia zappesca, altre in direzione di una fusion in stile Joe Zawinul. Eppure, le singole parti non fanno esattamente la somma dell’intero album. Quando il batterista chiama il lavoro un mix eclettico di elettronica, beats contemporanei, hardcore e guilty pleasures dal sapore retrò nel press kit, risulta idoneo all’eccezione di cui sopra.
Nato in Norvegia, per metà svedese ed attualmente residente in Danimarca, il batterista Anton Eger è riconosciuto con merito per il suo brillante lavoro con i Phronesis. Il trio ha ottenuto la notorietà intorno alla seconda decade degli anni duemila attraverso una ridefinizione del formato del piano trio jazz: una miscela selvaggia di strutture ritmiche concepite in maniera matematica e declinate attraverso melodie austere ed esuberanti al tempo stesso. I tre hanno iniziato a ottenere un’esposizione più ampia a partire dalla scena jazz britannica, con la quale hanno forti legami. Il nome di Eger ha iniziato a circolare prima di questo decennio, grazie ad un’altra formazione caratterizzata da un post-bop molto tirato, il quintetto svedese/norvegese/danese JazzKamikaze. Qui ha suonato insieme al sassofonista Marius Neset, che in breve sarebbe diventato il nuovo fenomeno del jazz norvegese, e lo ha poi seguito anche nei suoi in progetti solisti. L’album del 2011 Golden Xplosion del giovane Neset ha visto un’impennata di apprezzamenti da parte di tutta la comunità jazz che raramente s’era stato visto prima: grazie al virtuosismo post-breckeriano del leader e all’intricato playing con il pianista Django Bates, ma per merito anche della poderosa sezione ritmica rappresentata dal bassista e dal batterista dei Phronesis. E, infine, i People Are Machines devono essere menzionati tra le esperienza di Eger, una line-up in cui era presente un suo amico di lunga data: il contrabbassista Petter Eldh.
Il musicista svedese, che recita il ruolo produttore su Æ e in qualche pezzo é anche al basso, è un personaggio chiave nella realizzazione del disco. Caratterizzato da uno stile molto personale, fatto di linee frammentate ed eruttive, il nome di Eldh ricorre spesso nei posti più inaspettati. Nell’ultimo anno è stato ascoltato nell’album Punkt.Vr.Plastic insieme con Kaja Draksler e Christian Lillinger e nel lavoro di debutto del trio Enemy, qui con il pianista Kit Downes. A questo va aggiunto la collaborazione di lunga data con Django Bates, nel suo trio Belovèd. E’ stato anche il produttore di album come Ornithophobia dei Troyka, un lavoro che vira verso i territori della future fusion, ancora con Downes, stavolta alle tastiere. Un album che rappresenta un’interessante miscela di fusion e math-rock, passato un pò inosservato, ma che ha molte cose in comune con il debutto di Anton Eger, a partire dall’uso di strati di synth declinati in pattern poliritmici. Ed è, appounto, interessante notare come Petter Eldh abbia svolto il ruolo di deus ex machina in entrambi i lavori.
Æ ha avuto alle spalle un periodo prolungato di gestazione, dovuto anche agli impegni del batterista in tournée con i Phronesis: il lavoro per quest’album è iniziato quasi tre anni fa, dice Eger. È stato un classico momento da “Sento un cambiamento nella mia vita”. Cosa che mi ha portato ad una fase in cui all’improvviso ho avuto un forte bisogno di dire qualcosa in prima persona e indossare il ruolo di leader della band. Sono stato membro di molte band ed in alcune di queste ho avuto un ruolo di primo piano nel corso degli anni, quindi è stata probabilmente la ragione che mi ha portato a pubblicare il mio album di debutto mentre stavo per compiere 38 anni. Petter Eldh ha sostenuto Eger nella produzione sin dalle fasi iniziali. Il batterista spiega il ruolo chiave che ha interpretato: sapevo fin da subito che il tipo di disco che volevo pubblicare come debutto aveva bisogno di un produttore, ed ero abbastanza sicuro di sapere chi fosse. Petter e io siamo vecchi amici dai tempi del conservatorio a Copenaghen, dove abbiamo suonato in numerose band insieme, e lo facciamo ancora. Durante la lavorazione dei demo, Anton Eger spesso è partito da frammenti di pezzi, da idee appuntate e registrate sul telefono: gli ho mostrato i miei demo in una fase molto iniziale del processo e gli ho chiesto se gli sarebbe piaciuto produrlo. Quando abbiamo deciso di partire, avevo una visione abbastanza chiara di come questo disco sarebbe potuto essere e ho continuato a comporre il materiale di conseguenza. Penso che sia molto salutare avere un paio di orecchie che possano avvicinarsi obiettivamente alla tua musica e trovare soluzioni a cui non pensavi. Grazie alla nostra lunga amicizia, ero certo che Petter sarebbe stato in grado di aiutarmi a trovare l’essenza di ciò che volevo esprimere. Ha sviluppato un suono così unico e originale nella produzione ed é diventato un sound designer all’avanguardia, capace di raggiungere il massimo livello nella fase di produzione musicale. È stato un processo divertente scrivere questi brani per un periodo di tempo lungo e collaborare con Petter. Sono davvero felice di come sia uscito fuori quest’album.
Il computer programming sta diventando uno strumento consueto nel bagaglio di ogni batterista e nessuno come i batteristi sta esplorando il potenziale della programmazione dei synth virtuali. Questo connubio tra dispositivi analogici e digitali crea soluzioni interessanti, ma a volte anche dei lavori che sono uno sproloquio di virtuosismo fine a se stesso. Anton Eger non cade nella trappola, grazie ad una band in grado di suonare in una dimensione live una miscela sintetica di strumenti digitali e mantenere allo stesso tempo l’interazione tra synth e dispositivi analogici. Amo gli album – indica Eger – dove i musicisti hanno prestato attenzione ai dettagli della produzione e allo stesso tempo hanno integrato materiale eseguito in fase improvvisativa – integrando dimensione registrata e live nello stesso tempo, dal vivo in studio. Gli dà quell’elemento vitale, importante che amo. Combinare questi elementi è stato il cuore di questo lavoro.
I synth dei primi anni ’80, come Polysix o Juno, quelli che hanno fatto il successo della musica post disco e dell’electro pop, caratterizzano la maggior parte dello spazio sonoro dell’album. Nonostante siano strumenti con una lunga storia alle spalle, vengono declinati in modo inaspettato. Non ci si deve aspettare tracce base o tastiere programmate che suonano sul clic; anzi, una senso di improvvisazione e interazione tra strumenti digitali e analogici caratterizza l’album. Un giro di accordi fusion, posti su metriche dispari all’inizio di HERb +++ gA, innesca una cascata di modulazioni ritmiche da parte di Anton Eger. Il tema principale, un synth settato sugli ottoni che ricorda una sorta di cadenza a la Zawinul, si affaccia e se ne va durante la traccia, segnando l’inizio e la fine di ampi flussi di improvvisazioni. Come in una strada affollata, i bassi prominenti, i synth oscillanti, i rintocchi increspati di ritmo o gli archi tremolanti prendono il sorpravvento a turno. Ad ogni ripetizione, il tema viene modificato e replicato in un modo diverso, attraverso un vortice di energia crescente. Il batterista reagisce a queste variazioni piazzando una serie impressionante di upbeats e pattern, spesso di derivazione hip hop. Nella parte centrale c’è una sovrapposizione folle di synth, che segna uno degli espisodi più interessanti dell’album. La band é pervasa da un’energia frenetica e, durante il primo assolo al wurlitzer di Dan Nicholls, l’eccitazione aumenta ancora di più. Robin Mullarkey al basso dialoga in maniera intricata con Eger, fino a quando un nuovo assolo destrutturato da parte di Ivo Neame (il pianista dei Phronesis, qui ospite al piano, ma al Juno) spinge ancora più in alto il livello di tensione.
Amo gli album dove hanno i musicisti hanno prestato attenzione ai dettagli della produzione e allo stesso tempo hanno utilizzato parte delle registrazioni eseguite dal vivo in studio
A cominciare dal bassista Robin Mullarkey e dal tastierista Dan Nicholls, Eger ha creato un nucleo di musicisti che suona su tutti i brani, arricchito da vari ospiti. Il primo ha un background variegato, capace di spaziare dall’icona del prog rock Steven Wilson -suona il basso sull’ultimo To the Bone-, fino alla fusion di Jacob Collier. Nicholls è un esploratore abituale dei confini tra generi diversi tra loro: IDM, improvvisazione e math-rock si fondono spesso nel suo particolare uso delle tastiere. Ha collaborato con artisti come Squarepusher, Arve Henriksen, Goldie e Matthew Herbert. Un ideale punto di partenza per capire le sue capacità potrebbe essere un album, che ancora una volta cade nell’eccezione dell’etichetta ‘inclassificabile’: il trio Strobes. Eger, che conosceva già i due, ha trovato un quarto membro nel chitarrista Matt Calvert. Mi sono imbattuto in Robin e Dan in diversi contesti musicali e ho suonato con loro in una manciata di occasioni. Invece, Matt e io non avevamo suonato insieme prima, perciò è stata la prima volta che questa particolare formazione si è riunita e ha suonato insieme. Ciò che questi ragazzi hanno in comune è una musicalità e una padronanza enorme nel suonare i rispettivi strumenti. Ognuno di loro è geniale. So che abbiamo parecchi riferimenti musicali in comune e una comprensione molto simile della musica a diversi livelli. Prima ancora di chiederglielo, ho pensato a loro mentre componevo la musica per questo album, e sono felice di averlo fatto. Matt Calvert, che è un terzo del trio Strobes insieme a Nicholls e si è fatto conoscere grazie al sound unico dei Three Trapped Tigers, è uno dei musicisti più interessanti della scena math-rock britannica – una menzione in particolare per il suo ultimo progetto, Typewritten, un lavoro di musica da camera con inflessioni elettroniche pubblicato nel 2018.
Sugaruzd +++ pT inizia con un sinistro riff di basso, che si sposta, come in un pezzo prog, tra battute in 4 e 5 -e alla fine anche in 9/8. Anton Eger crea un’atmosfera rilassata, mentre Calvert colloca un riff spigoloso, che poggia su un pattern metrico diverso rispetto alla melodia del basso. La traccia ha un ritmo implacabile e questa concitazione è ancora più accentuata dai frequenti breaks e dalle veloci scale all’unisono: è come ascoltare Jazz from Hell di Frank Zappa su una traccia dei Boards of Canada. L’assolo iniziale di Mathias Heise all’armonica balla deliziosamente sulla struttura ritmica ipercomplessa. La seconda parte, più libera, è un pazzo botta e risposta tra lo shred della chitarra e le eruzioni di synth anni ’80. Un frammento di Eger e Eldh, in una sorta di duo avant jazz, conclude il pezzo.
Æ è un mix eclettico di elettronica, beats contemporanei, hardcore e guilty pleasures dal sapore retrò
Ogni traccia è conclusa da un breve interludio, di preferenza un duo basso e batteria. Il nome delle tracce e l’uso del segno “+” indica questa giustapposizione di due parti audio separate, dove la parta principale ha una struttura ben precisa e l’interludio, invece, tendenzialmente più improvvisato. Anton Eger racconta come ha creato questo linguaggio in codice: è concepito come due tracce. C’è la traccia principale e l’interludio. L’idea di avere queste code su ogni traccia principale mi è venuta quando ero sull’aereo, mentre andavo da Petter a Berlino per finire l’album. Stavo ascoltando i memo vocali sul telefono e mi sono reso conto che includere questi pezzetti avrebbe aggiunto una prospettiva differente in Æ a cui non avevo pensato prima. Eger gioca in modo interessante con l’editing delle tracce in post-produzione. Non è certo una novità questo procedimento nel jazz: parte del successo di alcuni album elettrici di Miles Davis, come In a Silent way o Bitches Brew, viene dal produttore Teo Macero e dal taglia e cuci di parti di brani registrati nelle session. Quello che invece è interessante è vedere come questa pratica stia risorgendo tra i musicisti jazz: non solo Anton Eger, ma anche il batterista Makaya McCraven ne fa ampiamente uso nei suoi lavori. La maggior parte degli interludi sono costruiti su questo concetto e creano un contrasto con la traccia principale, ma ci sono anche interludi che sono estensioni delle tracce principali con o senza batteria – dice Eger. Prima di questo momento non avevo mai avuto intenzione di usarli per niente. Sono semplicemente groove di batteria registrati sul mio telefono usando il microfono integrato, in vari luoghi in tutto il mondo. Alcuni degli intermezzi vengono catturati dal vivo in studio durante la nostra sessione di registrazione di Æ. Mi piace la crudezza di queste registrazioni e personalmente mi fanno venire in mente momenti e luoghi diversi quando ascolto l’album. Allo stesso modo, anche questo codice utilizzato per dare i nomi alle tracce é nato da come sono state create questa specie di tracce IDM: le combinazioni di lettere rappresentano o dove è stato registrato, da chi è stato ispirato, chi sta suonando o semplicemente come ho chiamato questo appunto specifico al momento in cui l’ho registrato. Penso anche che sia esteticamente attraente guardare una fila di titoli in cui c’è uno schema riconoscibile in essi.
La quarta traccia datn +++ oS è un perfetto esempio di congiunzione di due frammenti. I primi accordi lussureggianti di synth raddoppiati dal mellotron di Ivo Neame vengono pompati da un jazz in levare, mentre un vortice di arpeggi di chitarra si sposta seguendo metriche irregorali. La traccia segue lo stesso cammino destrutturato fino a dopo poco più di un minuto, quando l’interludio entra in scena con una transizione senza interruzioni. Petter Eldh piazza un frastagliato fraseggio di accordi distorti del synth, che il sassofonista Otis Sandsjö rimpalla con figure ritmiche intelligentemente contrappuntate, mentre Anton Eger sfoggia una serie di pattern cromatici sui piatti. Questa è una delle transizioni più piacevoli del disco, che segna un contrasto tra la struttura a strati dei synth precedenti e la fantastica improvvisazione del trio. Otis Sandsjö è un’aggiunta importante alla line-up, grazie all’interessante mix di backbeats elettronici e oscuri frammenti che ha messo in mostra nel suo lavoro Y-OTIS del 2018. L’apertura da chill pop di IOEDWLTO +++ hP è sostenuta dal playing intimo del sassofonista, fino a quando una pausa improvvisamente muove l’atmosfera in un calipso da dancefloor. Chitarra e sax interagiscono su un ritmo palpitante, mentre la struttura complessa della traccia si sviluppa su un gioioso elettro-pop da classifiche estive.