Prima stavi parlando del senso della vita, del disinteresse dell’arte. Prendiamo la musica. È l’arte meno connessa […] senza associazioni. Nonostante tutto la musica penetra l’anima! Che cosa risuona in noi in risposta dell’armonia del suono? E lo trasforma in una fonte di grande piacere, che ci unisce e ci scuote? Per quale scopo? E soprattutto per chi? Tu dirai, per niente e per nessuno. Disinteressata. Ma alla fine forse non é così… perché tutto, in fin dei conti, ha un significato. [Stalker, Andrej Tarkovskij 1979]
Due mondi separati che si incontrano, due culture lontane al crocevia di molteplici influenze trovano con facilità disarmante un terreno comune. Una molteplicità di riferimenti fuse nel suono unico di Illusion of a Separate World. Il chitarrista slovacco David Kollar e il trombettista norvegese Arve Henriksen fondono le loro prospettive in soundscape luminosi, tocchi etnici, ritmi elettronici e riff post-rock. Riescono ad andare dritto al nocciolo delle cose fin dal prima nota, non aggiungono niente che non serva. Ci offrono una musica nuda e mai inutile o disinteressata, ma solo concentrata a rivelare il significato che, come nella citazione di Stalker di Andrej Tarkovskij, é insito in ogni cosa.
Il chitarrista slovacco David Kollar si é guadagnato negli ultimi anni un interesse sempre crescente nel panorama della chitarra sperimentale. Soprattutto grazie alle collaborazioni con il batterista dei King Crimson Pat Mastelotto nel progetto KoMaRa, con il trombettista Paolo Ranieri a completare il trio. E poi soprattutto con l’invito da parte di Steven Wilson prima a suonare su due pezzi del suo ultimo To the Bone e poi ad aprire le date europee con i soundscape alla chitarra. Nei suoi album solisti la chitarra non é necessariamente l’elemento predominante: tutto é proteso ad una musica immaginifica, spontanea. Non a caso alterna al lavoro solista anche la composizione di colonne sonore. Nell’improvvisazione da solo o in gruppi ridotti (duo o trio) usa un armamentario di chitarre autocostruite e di effettistica: una strumentazione parzialmente ortodossa, spesso declinata in sonorità da synth orchestrale, oppure in glitch e rumori percussivi sulle corde tramite gli archetti, oppure ancora in laceranti soli grezzamente distorti. Eivind Aarset, Christian Fennesz e David Torn sono alcuni dei punti di riferimento nella sua musica e é proprio il suono di quest’ultimo ad essere il punto di riferimento maggiore in questo disco.
L’incontro con Arve Henriksen é avvenuto nel 2017 dopo un duo del trombettista con Fennesz. Dice Kollar: ‘Ho suonato lo scorso anno allo Spectaculare festival a Praga. Avevo in programma una performance da solo e dopo di me c’erano Arve e Christian Fennesz. Alla fine del concerto ci siamo scambiati i contatti. Da lì a pochi mesi ci siamo rincontrati sul palco dell’Hevhetia festival in Slovacchia’. Sulla strada del ritorno da quel concerto i due hanno deciso di suonare un album insieme. Nel dicembre del 2017 Kollar ha passato una settimana a Faenza, ospite dell’amico trombettista Paolo Ranieri, con il quale condivide anche il lavoro nel trio The Blessed Beat. Durante la permanenza, ha incominciato a delineare le basi per Illusion of a Separate World. Ha registrato soundscapes, riff, bozze di tracce su base giornaliera, quasi in forma di diario. Il risultato finale sono state 17 tracce, delle quali 12 sarebbero poi state selezionate per le registrazioni aggiuntive di Arve Henriksen.
È difficile immaginare questa collaborazione come il prodotto asincrono in studio piuttosto che una lunga jam dal vivo, tanta é l’initimità che i due dimostrano. L’apertura di Night Navigator, caratterizzata dai dilatati guitar synth di Kollar, é un viaggio attraverso una sovrapposizione di melodie in cui chitarra e tromba si alternano alla guida e rispondono. L’orchestrazione superba degli strati sonori mette in luce sia le doti di compositore di colonne sonore di Kollar, sia la capacità di Henriksen di mimetizzare la sua tromba in qualunque contesto si trovi. L’introduzione lascia lo spazio alla prima traccia vera e propria, Mirror Transformation: un paio di accordi lasciati risuonare col suono in pulito di Kollar fanno da tappeto ad Henriksen. Con il suo tipico suono fluttuante e respirato, imita il flauto ney della musica persiana mentre gioca attorno ad una melodia in dorico. Appena questa si esaurisce, entra un arpeggio discendente. I bassi profondi dell’accordatura abbassata della chitarra, l’andatura che richiama le melodie dell’est europa, eppure una sonorità quasi post-rock, permettono a Kollar di costruire uno scenario ieratico, quasi un rituale sacrificale; Henriksen lo raddoppia con un’inaspettata voce gutturale da musica siberiana.
Ho ascoltato molto Don Cherry e Miles Davis, ma Nils Petter [Molvær] e Jon [Hassell] sono quelli ai quali mi sono ispirato maggiormente. Loro avevano un suono molto personale e io no, ma un giorno Nils mi fece ascoltare lo shakuhachi giapponese, e allora ho capito che quella era la strada che, con la mia tromba, stavo cercando. [Arve Henriksen in Il Suono del Nord, Luca Vitali, Haze]. Arve Henriksen negli ultimi trent’anni ha rivoluzionato lo strumento grazie ad un’impostazione unica, grazie alla scelta di un’intonazione influenzata dagli strumenti a fiato etnici, il tutto filtrato frequenti usi di riverberi, di pitch shifters o distorsori. Alterna la tromba al canto -una voce eterea, quasi da contralto- e all’elettronica -tramite laptop o scatolette da drum machine. Etnica e elettronica, improvvisazione e non: partendo dal rumorismo dei Supersilent, alle esperienze più sperimentali folk con Terje Ingsuset o con il Trio Medieval, le commistioni più elettroniche con Jan Bang o più avant rock con David Sylvian; e infine gli album solisti per Rune Grammofon e ECM, solo per citare le collaborazioni degli ultimi anni. Towards Language del 2017 é un manifesto della poetica minimalista di totale riduzione dello spazio sonoro e melodico iniziata con Chiaroscuro (2004) e ancora prima con Sakuteiki (2001).
Costruire tanto con poco: può sembrare un paradosso confrontare Arve Henriksen non solo con Nils Petter Molvær, ma anche con un musicista così geograficamente e caratterialmente lontano come Miles Davis e la sua capacità di creare così tanto movimento musicale con poche note. La melodia iniziale di Chimera si sposta su tre note. La tromba raddoppiata dal pitch shifter gioca sulle acciaccature per imitare la secchezza di uno shakuhachi, muovendosi su un scoundscape liquido tra modo dorico ed eolico. Quando dopo 3 minuti e mezzo la chitarra emerge più distinta, entra anche un ritmo elettronico tribale insieme ad una chitarra ritmica afrobeat. Il successivo solo di Henriksen esplode in una massa lirica di riverberi, un inno potente e trascinante che ci guida, come se dall’alto di una montagna guardassimo di sotto. Dal punto di vista musicale- non avviene niente di più di ciò che debba avvenire.
Entrambi si spostano con facilità negli spazi dell’altro come fossero i loro. Quando in Solarization Kollar passa da una serie di accordi aperti ad un battito sulle corde basse della chitarra, Henriksen risponde con familiarità innescando una melodia quasi balcanica. L’interplay tra i due crea ancora una volta uno scenario di tensione, che raggiunge il picco quando la tromba viene filtrata attraverso un synth. A questo la chitarra risponde con glitch quasi percettibili. La tenue Castles in the Air offre uno dei soli più ispirati mai ascoltati dalla tromba di Henriksen. David Kollar é in disparte, stavolta più sulle note basse mentre la tromba si libra lirica e drammatica, intensa in ogni passaggio, fino alla lacerante chiusura della chitarra.
I potenti muri di accordi iniziali di Roving Observer, come indica Kollar, sono stati ispirati da Stalker di Andrei Tarkovskij, regista per il quale il chitarrista nutre un amore particolare. Le inquietanti atmosfere del compositore Eduard Artemev ricorrono in questo soundscape. Sembrano spuntare ad ogni angolo i rumori di Helge Sten ed i violenti accordi di Ståle Storløkken: Arve Henriksen non può che sentirsi a casa, mentre aggiunge le sue linee di tromba laceranti ed atonali. La chiusura é affidata ad un inno, quasi un accompagnamento per i titoli di coda di un ipotetico film. La melodia di Beyond the iCloud ascende quasi come un volo sopra la scena conclusiva di un film, come un drone che riprende da lontano la conclusione della vicenda. Il solo di chitarra si distingue per semplicità con un suono quasi frippiano, giocato su pochi bending e su molto riverbero. Infine, la melodia iniziale ritorna e si dissolve piano piano, prima dei titoli di coda.
Intimo, ma intenso; drammatico e sottile allo stesso tempo. Illusion of a Separate World è l’incontro tra due artisti che mostrano quanto è facile -per loro- creare musica immediata e complessa, inquientante e magnifica allo stesso tempo.
Illusion of a Separate World
David Kollar chitarra elettrica, electronics
Arve Henriksen tromba, voce, batteria, tastiere ed electronics
1. Night navigator
2. Mirror transformations
3. Silk spinning
4. Chimera
5. The spiral turn
6. Solarization
7. Vision of light
8. Castles in the air
9. Bird of passage
10. Augmented reality
11. Roving observer
12. Beyond the iCloud
Hevhetia Records
You were talking recently about the meaning of our life, the unselfishness of art. Let’s take music, it’s really least of all connected […] Nonetheless the music miraculously penetrates into the very soul! What is resonating in us in answer to the harmonized noise? And turns it for us into the source of great delight. And unites us, and shakes us? What is its purpose? And, above all, for whom? You will say: for nothing, and for nobody, just so. Unselfish. Though it’s not so perhaps… For everything, in the end, has its own meaning. [Stalker, Andrej Tarkovskij 1979]