Intervista ed ascolto dell’album con Marco Machera, Aprile 2018.
Cosa si può dire per spiegare la figura dell’Outsider? -si chiedeva nel 1956 Colin Wilson nel libro che gli avrebbe dato la fama, intitolato appunto L’Outsider [ed. Atlantide]. Un libro a cavallo tra romanzo e saggio, tra sociologia e letteratura che é andato ad investigare la figura di chi sta fuori la società. Una delle possibili risposte alla domanda é: ciò che caratterizza l’Outsider é un senso di stranezza, di irrealtà. Vede la realtà in maniera divergente; anzi vede una realtà diversa, ricrea mentalmente una realtà parallela. C’é un punto in comune tra questo passaggio ed un racconto dallo stesso titolo (anche se tradotto in italiano come L’estraneo) di H.P. Lovecraft: nonostante Colin Wilson non fosse un amante del maestro dell’orrore, nel racconto ricorre il tema del mondo parallelo sovrapposto a quello normale, immaginato e visto dagli occhi dell’outsider. Attraverso la storia [SPOILER alert] di un mostro raccontata in prima persona, viviamo da dentro lo sguardo di chi é al di fuori. Anzi, quando realizziamo che il mostro siamo noi, ci appropriamo della sua percezione distorta della realtà. Siamo calati in un mondo e lo vediamo attraverso queste lenti.
In Small Music from Broken Windows Marco Machera, bassista, cantante e compositore, ricrea un mondo parallelo e ce lo fa vedere attraverso gli occhi dell’Outsider. E’ il terzo album solista dopo One Time, Somewhere uscito nel 2012 e Dime Novels del 2014 e segna una discontinuità con i precedenti. Nei primi due erano evidenti le influenze marcate art-rock –Beatles, King Crimson, new wave. Con Small Music from Broken Windows assistiamo ad un cambiamento di linea: un concept di undici brani legati insieme da atmosfere cupe, blues sanguigni, venati di psichedelìa contemporanea e costruiti attorno al nucleo forte di una storia. Di fatto un racconto, la costruzione di un mondo parallelo: non musica caratterizzata da una qualità cinematica -usando un aggettivo spesso appiccicato alla musica come tappeto sonoro- ma musica che ripropone un effetto cinematografico, quasi stessimo vedendo attraverso la macchina da presa di un regista che continuamente si sposta attraverso le scene. Ed il racconto su cui si basa il concept é L’Outsider di Lovecraft: la storia non viene trasposta in maniera didascalica, magari riportando l’azione o i versi all’interno dei brani, ma tradotta in atmosfere cinematografiche, in un’aura di inquietudine. Rimangono i titoli dei pezzi a fare da ponte tra il racconto e l’album.
E’ un mondo parallelo irreale nel quale ci immergiamo. C’è una linea narrativa che si può seguire, però ovviamente, per via anche della qualità della musica, mi é piaciuto mantenere questo effetto onirico, astratto, per cui non é sempre chiaro di cosa si stia parlando, dove ci si trovi -come racconta Marco Machera durante l’intervista. Il disco é nato da macerie personali, momenti belli e meno belli messi insieme. Quello che avevo in mente non era fare un trasferimento letterale della storia di Lovecraft messo in musica e basta. Volevo adattare concetti della storia al mio vissuto. Mi piace che l’idea sia quella ed ognuno la può interpretare.
L’attacco di The Glimpse, solo chitarra e voce senza riverbero, mima un crooning delicato ed intimo: una breve cadenza in II-V-I, un tocco blues sviluppati in un giro brevissimo a trasportarci lentamente nel mood dell’album, come fosse l’introduzione del romanzo. The Glimpse era all’origine una demo; volevo espanderla, ma poi dopo mi é piaciuta così, chitarra e voce senza riverbero -volevo un disco senza riverberi. Ho aggiunto solo dei piccoli samples sotto. E’ solo un antipasto alle atmsfere da blues sanguigno, verace, di The Labyrinth of Nighted Silence. Una lap steel guitar, un’armonica a ricreare un’atmosfera che potrebbe uscire da una puntata di True Detective e dalla musica di T Bone Burnett. Tom Waits, però, é il riferimento primario per questo scurissimo blues, che ha il suo punto culminante nell’assolo storto e deviato di Cabeki, nome d’arte del versonese Andrea Faccioli. Avevo in testa per questo disco di fare un blues moderno, rivisitato. All’inizio era ancora più convenzionale con la chitarra a tenere il tempo. L’ho svuotato: é rimasto il piede, l’armonica ed il synth che si sente sotto. Poi ho aggiunto la chitarra con il tremolo per dare questa sensazione notturna. Nella versione che sta portando dal vivo con una line-up parzialmente differente da quella dell’album, Labyrinth of Nighted Silence acquista una potenza evocativa, un viaggio onirico vivido e psichedelico. Attraverso le tastiere di Eugene, la chitarra del collaboratore di lunga data Enzo Ferlazzo e del compagno di avventura con la band EchoTest Alessandro Inolti, Marco Machera aggiunge strati di significato ai pezzi, ne aumenta il coefficiente di oniricità se possibile nel contesto live.
Per un musicista dal background progressive può risultare drammaticamente difficile comporre un pezzo con pochi accordi. Lo racconta bene Daniel Gildenlow della band prog metal svedese Pain of Salvation quando, dopo che la loro Ashes venne eletta come canzone dell’anno dagli utenti di una nota webzine prog nel 2000, rivelò con atteggiamento di sfida ai fan prog che era composta da soli tre accordi (!). Ma si può fare ancora di più: Frantic é costruita su un accordo per la strofa ed un altro per il ritornello: l’effetto della tastiera di Francesco Zampi, che rimane per interminabili secondi sullo stesso accordo nel chorus, é straniante all’ascolto. Il riff di banjo in loop dall’intro in poi é, però, il protagonista. Una cosa curiosa é che anche questa traccia di banjo era solo una take da fermare. Però mi piaceva. Il problema era che il banjo era scordato. Quindi ho dovuto riaccordare tutto al banjo, ad esempio il basso era scordatissimo. Quando abbiamo dovuto provare live i musicisti mi hanno chiesto che accordatura fosse (risata). La linea di basso dell’accompagnamento si muove in slide con chiaro riferimento a Tony Levin. Non é un caso visto che Marco ha avuto modo di conoscere e suonare con Levin, oltre che con Adrian Belew e Pat Mastelotto dopo averli incontrati al Three of a Perfect Pair camp. In realtà -racconta Marco- è una chitarra suonata con l’octaver doppiato con il basso vero, per dargli più spessore, un octaver dell’Eventide. Il suono, comunque, era troppo poco spinto sulle basse; ho duplicato la traccia e portata un’ottava giù. Sembra quasi che suoni in fretless, ma in realtà é una chitarra che si muove su una sola corda. Trasportato un’ottava sotto ha datto la grana particolare al suono.
Small Music from Broken Windows ha avuto una gestazione lunga per un album composto fatto di immediatezza e di pezzi brevi -un solo pezzo sopra i 5 minuti, quasi tutti sotto i 4. Ho iniziato a scriverlo dopo l’uscita di Dime Novels, quindi addirittura fine 2013 e tutto 2014 e 2015. Poi é rimasto fermo. Poteva già uscire nel 2016. Però poi ovviamente, aspettando, ho avuto modo di perfezionare, affinare come volevo, come lo avevo in testa. E’ il il primo disco che riesco ad ascoltare senza aver voglia di apportare modifiche. Con Dime Novels ho talmente rincorso la mia idea di perfezione per i suoni che avevo in testa, per gli arrangiamenti che poi alla fine mi sono ritrovato che non avevo più il senso finale del disco. Anche per Small Music from Broken Windows ho cercato il perfezionismo, ma ho trovato più facilmente la quadra. Ero contento, mi sono fermato e sono stato contento di essermi fermato. Adesso riascolto il disco e dico é tutto al suo posto.
Tutto l’album predilige più il senso di atmosfera che di complessità della scrittura; cosa che magari lo distanzia dalla cerebralità del prog classico, ma lo avvicina al sound del new prog dell’etichetta Kscope, pensando ad esempio ai No-Man, a Steven Wilson, a Tim Bowness. The Tower é il primo interludio strumentale, costruito attorno ad un giro di chitarra ed una breve linea della melodica di Gionata Forciniti. Un piccolo stacco da colonna sonora prima dell’arpeggio su chitarra acustica sullo slow-tempo di The Things, che sembra uscito direttamente da Fear of the Blank Planet dei Porcupine Tree. I suoni liquidi o dolcemente percussivi delle tastiere hanno tanto del gusto di Richard Barbieri. E’ un momento chiave, centrale dell’album costruito su un giro ancora una volta semplice, ma ampliato da una linea melodica -al contrario- imprevedibile. L’interpretazione della cantante Diandra Danieli, splendidamente replicata da Eugene nel contesto live, va ad arricchire un pezzo raffinatamente pop.
Ancora il banjo che dialoga con quel tipo di voce pulita che non ci si aspetterebbe in un blues come in The Climb. La controlinea melodica del violino ed il tappeto della fisarmonica sono spiazzanti e ci portano dritti ad una batteria sporca, da garage. Ho sempre avuto una fascinazione per il country, l’americana. Nei primi due dischi ho inserito questi elementi. Qui volevo che fossero più prominenti gli strumenti acustici, la batteria in un certo modo, le percussioni. Volevo dare un’idea di terra, di notte, di notturno. Un country, come racconta lo stesso Marco, stravolto, straniato, che sale di intensità fino all’apertura dell’arpeggio maestoso che fa esplodere tutto dopo circa due minuti: mi sono ispirato ad un documentario sugli XTC, in cui registravano la chitarra elettrica con il microfono senza attarla al jack, poi doppiata con un’altra elettrica. Io ho doppiato l’elettrica non attaccata al jack e poi la chitarra elettrica suonata con un amplificatore Vox. L’attacco, il plettro sulla corda crea un effetto stranissimo.
L’incontro chiave della carriera di Marco Machera é stata la collaborazione con il batterista Pat Mastelotto. Conosciuto in una fase di pausa dei King Crimson, prima dell’ultima attuale reincarnazione, il batterista californiano é diventato il punto di svolta per introdurlo alle preziose collaborazioni degli album solisti e dei suoi progetti attuali: Julie Slick, con la quale suona negli EchoTest, Tim Motzer, Markus Reuter, Tobias Ralph. Il primo contatto con Pat é stato su MySpace, nel 2009. Io in quel periodo ero pazzo di Eyes Wide Open [King Crimson DVD in Giappone del 2003]. Ero impressionato da Mastelotto, che secondo me ha raggiunto lì il picco della sua arte nella maniera in cui ha mescolato l’elettronica, nella precisione che ha raggiunto, nelle interazioni con Trey Gunn. In quel periodo stavo mettendo insieme i primi pezzi per One Time Somewhere. Gli ho scritto, gli ho spiegato il progetto e gli ho mandato le tracce. E’ nata una fiducia reciproca e da li siamo arrivati a collaborare. Mastelotto appare in Broken Windows, un interludio dalle atmosfere ipnotiche e cinematiche: il tappeto di accordi sul basso prepara il terreno al sax che si muove con una linea primordiale, su tre note. Poi l’ingresso della batteria, incisiva e incattivita di Mastelotto insieme alla fisarmonica a portarci fino alla coda del pezzo. Stiamo lavorando ad un video per accompagnare questo pezzo dal vivo. Parlandone con il filmaker, lui mi ha colpito perché ha detto come fosse il pezzo centrale del disco. Intanto perché il titolo del pezzo richiama quello del disco. E poi secondo lui c’è un cambio, il protagonista di questo racconto sta capendo alcune cose e da qui in poi le cose cambiano irreversibilmente. Si capisce senza parole, in un pezzo strumentale. Volevo un pezzo che racchiudesse il mood del disco e fosse strumentale.
Il punto di svolta é sottolineato da Ghost Town, probabilmente l’unico pezzo che mantiene una struttura di armonia e di canzone più strutturata nel disco: e per questo forse il più vicino ai precedenti album. Fino a The House, ancora un gioiellino di interludio elettronico: stavolta é la linea vocale, eterea, inaspettata, che va ascoltata e riascoltata insieme all’accompagnamento minimale del piano elettronico di Andrea Gastaldello. Come racconta Marco: arriva un momento chiave della storia. Avevo mandato [ad Andrea Gastaldello] pochi accordi base. Lui mi ha mandato indietro questa traccia stravolta: pur mantenendo la melodia vocale, sotto ha cambiato il mondo a livello armonico. Armonia e melodia sembrano slegati. Gli avevo dato questa indicazione, ma non mi sarei aspettato questo lavoro così bello.
La storia si sta ormai concludendo, arriva il momento in cui il mostro lovecraftiano, comprende di essere l’outsider, di essere fuori dalla società e di guardarla dall’esterno. L’inquietante realizzazione é ripresa in slow motion, attraverso uno sguardo sornione, schizzato, ferito eppure in un certo senso confidente di se stesso. Wounded Heart parte tra un sample elettronico che richiama il suono di un allarme e lo spoken word che racconta la scena. Percepiamo quest’atmosfera di terrore come fossimo di fronte allo schermo della tv, in maniera mediata –vicariously, per citare un pezzo dei Tool. Il mid-tempo di batteria é il perfetto accompagnamento per la linea di basso a la Colin Edwin che fa da coda al pezzo. In poche note ci sono tante influenze che partono da lontano: dal dub, al trip-hop, ai Porcupine Tree. Un perfetto esempio che fa capire come il segreto di Small Music from Broken Windows é riuscire a nascondere ben bene queste influenze ed a farle riemergere piacevolmente decontestualizzate quando meno ce lo si aspetta. La coda di The Shards é affidata al basso ed alla voce con in aggiunta la chitarra di Tim Motzer ad amplificare i riverberi. Una perfetta chiusura onirica che riprende in maniera circolare il tema della prima traccia.
Oltre ai suoi progetti solisti in questo momento Marco Machera si muove tra il sound misto di prog e new wave degli EchoTest -con cui ha in preparazione un nuovo lavoro per l’autunno- e le pazzesche linee dell’orchestra prog del progetto troot –la cosa più difficile che ho fatto nella mia vita! Ma sta anche scrivendo per altri e portando dal vivo il suo lavoro solista. Una polivalenza che spazia in ambiti spesso così distanti e con alle spalle gusti tanto diversi. Nella stessa intervista siamo riusciti a parlare di Iron Maiden, Tom Waits, Tricky e Steven Wilson: tutti in qualche modo entrano nella sua musica. Small Music from Broken Windows ha le qualità dell’outsider proprio perché viene da un musicista capace di mescolare all’interno di una canzone pop tante influenze. Porta gli ascoltatori fuori dal contesto che si aspetterebbero ed e si rende capace -come un outsider- di dire qualcosa che non ci si aspetta.
Marco Machera
Small Music from Broken Windows
The Glimpse:
Marco Machera: guitar, vocals, samples
The Labyrinth of Nighted Silence:
Marco Machera: guitar, vocals, bass, samples, percussion
Cabeki: guitar solo
Frantic:
Marco Machera: bass, vocals, banjolin, samples, percussion
Francesco Zampi: samples, drum programming
The Tower:
Marco Machera: guitar, samples
Pete Donovan: double bass
Gionata Forciniti: melodica
The Things:
Marco Machera: guitar, vocals, synth bass, kalimba, rhodes, samples
Andrea Gastaldello: piano, electronics Diandra Danieli: vocals
Toni Nordlund: drums
Climb:
Marco Machera: vocals, keyboards, accordion, samples, drums, percussion
Broken Windows:
Marco Machera: bass, samples, accordion, guitar
Toni Nordlund: drums
Pat Mastelotto: cymbow
John Porno: saxophone
Ghost Town:
Marco Machera: bass, vocals, guitar, samples, keyboards
Alessandro Inolti: drums
Pat Mastelotto: additional drums
The House:
Marco Machera: vocals, soundscape
Andrea Gastaldello: piano, electronics
Wounded Heart:
Marco Machera: bass, vocals, guitar, samples, loops
Andrea Gastaldello: electronics
Pat Mastelotto: drums
The Shards:
Marco Machera: bass, vocals
Tim Motzer: guitar synth, piano
Francesco Zampi: treatments
Interview and listening session with Marco Machera, Apr 2018.
What can be said to characterize the Outisider? asked Colin Wilson in 1956 in The Outsider, the book that would make him famous. A book which is both a novel and essay, investigating in both sociology and literature fields the figure of those who are outside the society. One of the possible answers to the question is: what characterizes the Outsider is a sense of strangeness, of unreality. He sees reality in a divergent manner; incidentally, he sees a different reality, he recreates a parallel reality into his mind. There is a common ground between this excerpt and an eponymous novel by H.P. Lovecraft: despite Colin Wilson did not appreciate too much the horror master, the novel recalls the theme of a parallel world superimposed on the normal, imagined and explained via the eyes of the outsider. Through the story [SPOILER alert] of a monster told in first person, we live inside the view of someone who stands outside. Indeed, when we realize that we are the monster itself, we share its distorted perception of reality. We fell into a world and we see it through these lenses.